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Chiusura ‘TRENTINO’, Bert: «Si riduce il pluralismo culturale e politico».

Prima Pagina è un programma radiofonico in onda su Rai Radio 3 tutte le mattine dalle 7.15 alle 8.45, che propone la rassegna quotidiana dei giornali: trenta minuti di lettura da parte di giornalisti di diverse testate che si avvicendano al microfono in turni settimanali. Il primo a condurre il programma fu Ruggero Orlando. Dopo meno di sette mesi, nell’ottobre del 1976 – condotta nella sua prima settimana da Eugenio Scalfari – Prima Pagina si arricchisce di Filo Diretto, una novità importante: gli ascoltatori intervengono per commentare e fare domande sugli argomenti più interessanti della giornata. Nella puntata del 16 gennaio scorso condotta da Lidia Baratta, giornalista del quotidiano Linkiesta, dove si occupa soprattutto di lavoro ed economia, ha risposto ad una telefonata di Silvano Bert di Trento. Il suo intervento verteva sulla decisione di chiudere il giornale Trentino uscito per l’ultima volta nelle edicole sabato scorso con il titolo : «Addio cari lettori, domani non saremo più in edicola», un quotidiano fondato nel 1945 con il congedo del suo direttore responsabile Paolo Mantovan: «Il Trentino è stato un pezzo importante di democrazia, un luogo in cui la comunità si è misurata e costruita. Perdere una voce in un momento in cui la democrazia conosce capitoli come quello del Campidoglio a Washington, dove, graffiato sulle pareti durante l’invasione del 6 gennaio, si leggeva “murder the media” (“uccidi il giornalismo”), perdere una voce è un grave rischio per tutti».

Silvano Bert (è stato professore di letteratura italiana e storia all’Istituto Tecnico Industriale “Buonarroti” di Trento dal 1969 al 2002) ha esordito con voce mesta nel suo appassionato commento, leggendo il titolo di commiato scelto dal giornale, l’incipit di una lunga riflessione sulla chiusura del quotidiano (su decisione della società editrice proprietaria che messo in cassa integrazione a zero ore tutti i 19 giornalisti). «Un giornale storico nato come organo del comitato di liberazione nazionale (in origine si chiamava Alto Adige e dal Duemila mutuato in Trentino, ndr) che ha concluso così la sua storia. La mia solidarietà alla redazione chiusa dalla sera alla mattina – ha detto Silvano Bert (è stato un collaboratore storico del Trentino e di altre testate giornalistiche come l’Adige e QT, una figlia giornalista Chiara Bert moglie dell’attuale sindaco di Trento Franco Ianeselli, ndr), e quando chiude un giornale si riduce il pluralismo culturale politico e c’è una ragione profonda. Parlo da insegnante (la sua esperienza a scuola l’ha riportata pubblicando “L’aula e la città”, ndr) e mi rendo conto che l’analfabetismo funzionale in Italia è ancora diffuso e quindi la parola da leggere e da scrivere è più difficile della parola da vedere. Io sono stato costretto a portare i giornali in classe quando ho iniziato ad insegnare 50 anni fa nel fuoco del ‘68. Erano gli studenti che volevano il giornale in classe e io ho dovuto imparare con loro come è fatto un giornale, perché all’università avevo imparato la lingua della letteratura e non il pluralismo linguistico. Abbiamo imparato sul giornale che la lingua della cronaca non è quella del commento, la lingua di un corsivo non è quello della lettera, la distinzione tra un titolo caldo e un titolo freddo. A scuola con il giornale in mano, confrontando il Trentino, con l’altro quotidiano che è l’Adige per una provincia fortunata come è la nostra avere tre quotidiani (il terzo è il Corriere del Trentino, dorso del Corriere della Sera, ndr) in un territorio così piccolo. Io ho imparato così il pluralismo linguistico insieme ai miei studenti. Poi gradualmente la politica si è ridotta ai politici e i cittadini ridotti a spettatori passivi che assistono muti ad uno spettacolo su un palcoscenico. Non ho mai condiviso proprio la parola casta se pur inventata da prestigiosi giornalisti. »

«Con Alberto Faustini (attuale direttore dei quotidiani Alto Adige e Adige, ndr) , Paolo Mantovan (l’ex direttore del Trentino, ndr) e la stessa Chiara (la figlia giornalista, ndr), entrai in polemica, dura, nel 2011: mi rifiutai di partecipare alla raccolta di firme contro la “casta”. A me parve un cedimento all’antipolitica. Da un giornale mi aspettavo, e mi aspetto, uno sguardo critico, ma costruttivo, sulla politica. Non mi accontento dei racconti brillanti sulle mosse e le manovre dei leaders, ma una sollecitazione all’impegno collettivo. “Siamo noi la politica”- scrive Silvano Bert sul suo profilo facebook, commentando la chiusura del quotidiano-, e proseguendo nel suo intervento a Prima Pagina su Radio Rai 3 si è addentrato in un’analisi sulle cause della crisi dell’editoria e la scomparsa dei giornali quotidiani: «È difficile dire se sono i mezzi telematici e informatici che hanno cambiato la concezione della politica o se anche i giornali hanno dovuto adeguarsi, prigionieri di questo cambiamento. Le chiedo (rivolgendosi alla conduttrice Lidia Baratta, ndr) quanti articoli sono pubblicati sui giornali di oggi si concludono dove il cittadino che legge si sente impegnato a partecipare perché la politica è cosa sua. Io credo che questa sia la sfida a cui la società italiana è chiamata anche di fronte alla chiusura di un giornale di carta».

Un sentimento di profonda amarezza risuonava nelle sue parole; a dimostrazione di una coerenza e onestà intellettuale che riconosce il valore di un giornalismo in grado di trasmettere ai lettori la possibilità di suscitare uno spirito critico come poi ha commentato Lidia Baratta nel rispondere: «La ringrazio per questo suo appassionato intervento e per il risalto che da al valore del giornalismo e di farlo conoscere in classe, perché leggere solo il libro di testo è un’operazione fin troppo facile e limitante per la formazione, mentre i giornali permettono di aprire tutte le scuole verso il mondo, verso le diverse inclinazioni di pensiero e la chiusura di un giornale è sempre una grave perdita. Ai colleghi del Trentino va tutta la mia solidarietà – ha concluso la giornalista conduttrice del Filo diretto di Prima Pagina -.

Raggiunto al telefono Silvano Bert gli abbiamo chiesto di approfondire quanto detto alla Rai: «Il primo livello del mio discorso toccava il problema della riduzione di una voce (la chiusura del quotidiano Il Trentino, ndr) e del pluralismo, una perdita che paga l’intera società. Io in radio ho parlato da insegnante e di cosa è stato il giornale per me quando insegnavo. Un fondamentale strumento di formazione linguistica. Il linguaggio letterario non deve più detenere il monopolio dell’istruzione linguistica. I miei studenti quando mi incontrano mi ricordano di essere stato il loro “insegnante dei giornali”. Bisogna imparare che ci sono dei linguaggi diversi e quello del giornale è uno strumento particolarmente prezioso perché il pluralismo culturale è contenuto in sé. Vengono messe in moto forme di intelligenza diverse e il giornale è fonte di maturazione e formazione. Nella mia carriera di insegnante ho utilizzato spesso anche le puntate radiofoniche della Rai di Prima Pagina. Registravo a casa e i brani che mi interessavano di più li facevo ascoltare in classe per poi discuterne. Avevo proposto anche un progetto “Prima Pagina in cattedra” rivolto agli insegnanti nell’utilizzare le puntate di Prima Pagina che vanno in onda ogni giorno. Io ho pubblicato un editoriale che ne parla sul sito www.viandanti.org dal titolo “Cittadinanza e scuola. Pensiero di un anziano insegnante ” » – in cui scrive – “Ogni giorno. Qual è la notizia più importante per il conduttore? Io sono d’accordo o scelgo un’altra notizia? Il Coronavirus è ancora notizia? E di scuola scrivono oggi i giornali? A questi due temi i giornali dedicano uno spazio adeguato, insufficiente, eccessivo? A Filo diretto qual è la telefonata più interessante degli ascoltatori? Sul giornale nazionale che oggi leggo, la notizia di apertura, la più importante [in prima pagina, titolo in alto, a caratteri grandi] è la stessa scelta dal conduttore alla radio? Il titolo è freddo, informa sul fatto, o è caldo, prende posizione a favore o contro? Se oggi ho scelto un giornale locale (solo in Trentino sono tre, il Trentino, l’Adige, il Corriere del Trentino: lo considero positivo o negativo?)la notizia di apertura è certo diversa dal quotidiano nazionale: qual è la mia impressione?”.

Nella conversazione telefonica spiega anche che «quello che è accaduto negli ultimo decenni ha messo in crisi il monopolio dell’informazione ma il giornale da leggere, da scrivere è uno strumento di educazione formidabile con il superamento del monopolio del linguaggio letterario. Leggere sull’informazione della politica è molto più impegnativo mentre sugli altri mezzi telematici prevale un’informazione come spettacolo (la disinformazione di molti programmi televisivi basati sullo scontro tra politici ha preso il sopravvento anche nei media, ndr). Anche ai giornali della carta stampata è venuto il desiderio di scendere sul terreno dello spettacolo ma la politica siamo noi e ci dobbiamo impegnare direttamente partecipando attivamente nella società. Vedere un giornale che muore è un colpo al cuore».

Rocco Cerone segretario del Sindacato giornalisti del Trentino Alto Adige scrive su Articolo 21, riguardo la chiusura: «Decisione che disattende l’impegno sottoscritto due mesi fa dall’azienda che, in concomitanza con l’annuncio della fusione per incorporazione di SETA SPA in SIE SPA del 18 novembre 2020, dichiarava che si sarebbe impegnata a presentare entro il mese di gennaio 2021, per ogni giornale del gruppo, un nuovo piano editoriale per il mantenimento dell’autonomia delle testate e per il rilancio delle stesse sul mercato e che, dall’operazione aziendale, non si sarebbero avute ricadute occupazionali eccedenti al numero degli esuberi già individuati dall’azienda nell’ultimo anno». Una pagina triste per l’informazione.

(Fonte: Articolo21)

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Ronchi dei Legionari: “La libertà di stampa”, Bolzano: “La passione per la verità”

“La libertà di stampa. Dal XVI secolo a oggi” e “La passione per la verità”: due libri che verranno presentati in città diverse e distanti tra di loro ma con un obiettivo in comune: salvaguardarne la sua funzione democratica e indispensabile per garantire una libera e corretta informazione. A Ronchi dei Legionari (Gorizia) il 26 settembre alle 20.30 viene presentato “La libertà di stampa. Dal XVI secolo a oggi” (Il Mulino editore) di Pierluigi Alliotti (giornalista professionista e studioso di storia contemporanea, insegna Storia del giornalismo alla Sapienza Università di Roma), invitato dall’ Associazione culturale Leali delle Notizie che organizza la sesta edizione del Festival del Giornalismo (in programma dal 22 al 26 settembre), in dialogo con Rocco Cerone, segretario del Sindacato regionale dei giornalisti del Trentino Alto Adige, Roberto Rinaldi responsabile del presidio di Articolo 21 per il Trentino Alto Adige e la moderazione di Carlo Muscatello presidente regionale Assostampa del Friuli Venezia Giulia.

Il 28 settembre a Bolzano sarà la volta di “La passione per la verità. Come contrastare le fake news e la manipolazione attraverso internet e social ed arrivare ad una corretta informazione e diffondere un sapere inclusivo”a cura di Laura Nota (Franco Angeli editore). Un corso deontologico promosso dalla Libera Università di Bolzano, Ordine dei giornalisti del Trentino Alto Adige, Sindacato dei Giornalisti del Trentino Alto Adige e del Veneto, FNSI ed Articolo21. I relatori sono Laura Nota delegata dal Rettore dell’Università di Padova per l’inclusione e la disabilità, (docente ordinario al Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata) e Roberto Reale giornalista e scrittore, docente all’Università di Padova al Master in Comunicazione delle Scienze e al Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione.

La libertà di stampa: Dal XIV secolo a oggi” di Pierluigi Alliotti racconta la lunga storia della libertà di stampa: un diritto concepito nell’Inghilterra del Seicento come corollario alla libertà di coscienza, proclamato a fine Settecento in Francia dalla Dichiarazione dell’uomo e del cittadino e negli Stati Uniti dal Primo emendamento alla Costituzione. In Italia fu riconosciuto nel 1848 dallo Statuto albertino. Lo scoppio della Grande Guerra e l’avvento dei totalitarismi determinarono una battuta d’arresto nel cammino della libertà di stampa, poi solennemente sancita nel 1948 dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Ancora oggi, tuttavia, in molti paesi questo diritto fondamentale è negato e i giornalisti sono perseguitati. Nell’introduzione l’autore richiama subito l’importanza del tema citando in più riprese Mario Borsa un giornalista che pur di non rinunciare alla sua indipendenza intellettuale si rifiutò di mettersi al servizio del fascismo e per questo fu arrestato. Corrispondente da Londra del “Secolo” di Milano, firma del “Corriere della Sera” e in seguito corrispondente dall’Italia del quotidiano “The Times”. «La libertà di stampa, che è l’anima e l’animatrice di tutte le libertà, è un problema fondamentale. È bene tornarvi su, pienamente ed elementarmente tanto più che il grosso pubblico – e, purtroppo, non il grosso pubblico soltanto – ha in merito idee inesatte, vaghe e confuse… di un problema che, ridotto nei suoi termini essenziali, è di una trasparente chiarezza e di una grande semplicità».

Con un distinguo fondamentale: «Per esercitare questa sua funzione – la più alta delle sue funzioni – è necessario che la stampa sia libera da ogni compromissione, o peggio, da ogni legame con gli uomini di Governo, Indipendenza dunque: indipendenza assoluta: il che implica nella stampa un grande senso di responsabilità». Oggi questo problema è ancora più stringente e se la libertà della stampa è sempre in pericolo è vero anche che la sua responsabilità non viene sempre esercitata e dimostrata nei confronti dei lettori. Uno di questi, Antonio Perrone, ha scritto alla rubrica Lettere del nuovo quotidiano “Domani” toccando un aspetto fondamentale ma trascurato dai più: «Credo che la libertà di stampa sia troppo spesso data per scontata da noi lettori che su questo tema ci consideriamo soggetti passivi che possono al massimo essere spettatori del panorama mediatico del proprio paese – e riferendosi alla censura da parte di Orbàn in Ungheria – questa storia ci ricorda che non è così: la libertà di stampa non è solo in mano ai giornalisti, ma anche soprattutto, in quello che noi lettori che ogni giorno scegliamo chi ricompensare per averci dato informazioni che ci aiutano a capire il nostro mondo».

Il lettore lancia anche un monito che non può che essere condiviso e sostenuto: «… Trovo ridicola l’idea che informarsi debba essere gratuito, nella nostra economia bisogna avere il coraggio di sostenere i mezzi di informazione che ci permettono di svolgere la nostra cittadinanza attiva nel migliore dei modi». Un diritto – dovere alla base della democrazia secondo chi ha inviato la lettera al quotidiano da pochi giorni nelle edicole. Proseguendo nella lettura de “La libertà di stampa. Dal XVI secolo a oggi”, utile a comprendere quanto sia stata sempre osteggiata la libertà di stampa nei secoli e in tutti gli stati, si si sofferma su quanto scritto nel 2018 dal direttore del Time Edward Felsenthal: «Oggi la democrazia nel mondo affronta la sua più grande crisi da decenni. Le sue basi sono state minate da invettive dall’alto e da tossine dal basso, da nuove tecnologie che alimentano antichi impulsi, da un cocktail di uomini forti e istituzioni indebolite. Dalla Russia a Riad, da Silicon Valley, la manipolazione e l’abuso della verità sono state il filo conduttore di molti dei principali titoli di quest’anno (2018, ndr), una minaccia insidiosa e crescente alla libertà».

Colpisce l’affermazione «… da nuove tecnologie che alimentano antichi impulsi” e in parallelo lo spiega bene anche Rosario Rizzuto, Magnifico rettore dell’Università di Padova nella Premessa che introduce “La passione per la verità” curato da Laura Nota: «… le fake news, intese come manipolazione della realtà, e diffusione di dati e immagini fraudolenti e distorti; un fenomeno capace di agire e a più livelli, così come la ricerca sul tema sta mettendo chiaramente in evidenza. Il rettore le riconduce alla «conseguenza di un’apparente “democratizzazione del sapere”, che rifugge il controllo delle procedure di verifica della scienza sperimentale galileiana, ma sempre più spesso sono strumento manipolativo secondo un disegno strategico coordinato da ideologie di gruppi dominanti. E in questo caso con l’uso delle fake news si arriva ad impattare direttamente e pesantemente i meccanismi di formazione del consenso della società democratica». Da qui l’importanza della ricerca che ha permesso la nascita di una collaborazione preziosa e reciproca tra il mondo della ricerca e quello dell’informazione. Argomento che verrà dibattuto nel corso del dibattito a Bolzano il 28 settembre.

Alliotti nel suo libro indica anche la responsabilità che hanno portato alla perdita di molti posti di lavoro nei giornali e la supremazia di Google e Facebook nel sostituirsi ai giornali per diventare «potenti distributori di notizie e informazione nella storia dell’umanità, rilasciando accidentalmente nel processo un’ondata storica di disinformazione», senza dimenticare un’altra conseguenza deleteria per una corretta e libera informazione, quella delle querele per diffamazione definite anche “temerarie”: un problema da affrontare in sede anche legislativa per fermare una deriva pericolosa che spesso impedisce la divulgazione delle notizie. La censura della stampa è descritta con puntuale descrizione storica dall’autore che cita molti esempi. Nel 1500, ad esempio, i papi e i regnanti di molti paesi si distinsero per impedire alla stampa di fare il loro dovere. Il comunismo in Russia e il fascismo in Italia imponevano un’idea di libertà di stampa funzionale ad esaltare ogni loro azione. Non la pensava così Voltaire nel 1771: «Non può esservi libertà presso gli uomini senza la libertà di spiegare il proprio pensiero», così anche per Rousseau che attribuiva all’opinione pubblica il compito di criticare e giudicare. L’autore spiega anche che «i rivoluzionari francesi erano ostili alla censura preventiva, ma nello stesso tempo contrari a una libertà di stampa illimitata. Dall’America all’Inghilterra la censura si manifesta anche in Italia nel corso dei secoli e i capitoli del libro “Il trionfo”, “L’eclissi” e “la libertà totalitaria” analizzano nel merito quanto sia stata determinante la politica italiana nel reprimere la libertà di stampa. E non deve sorprendere il passaggio dedicato all’esperienza giornalistica di Mussolini dove si vantava di di essere uno strenuo difensore della libertà di stampa.

Nel 1909 come direttore responsabile del giornale “L’Avvenire del Lavoratore” a Trento aveva subito numerosi sequestri da parte delle autorità austriache e la sua reazione di protesta non tardò a farsi sentire, così come nel 1913 alla direzione de “L’Avanti!” per aver scritto contro il governo Giolitti fu sottoposto a processo per poi essere assolto. Una dittatura fascista in cui lo stesso Mussolini smentendo il suo passato di giornalista paladino della libertà di stampa si distinse per abolire il libero pensiero e censurare la stampa. «Nel 1926 fu disciolta la Federazione nazionale della stampa italiana (il sindacato dei giornalisti fondato nel 1908 – scrive Alliotti – e dopo il fallito attentato al duce il 31 ottobre dello stesso anno, la stampa antifascista, già vessata dai sequestri e ridotta ad una condizione d’inferiorità, fu definitivamente messa al bando». E le conseguenze non si fecero attendere: la morte di Giovanni Amendola e Piero Gobetti per le conseguenze delle aggressioni squadristiche e Antonio Gramsci in carcere dopo 11 anni di prigionia. Tutti e tre colpevoli di essere stati giornalisti. L’epurazione di centinaia di giornalisti sgraditi al regime per le loro idee. Un regime “totalitario” in cui il duce esaltò la “stampa più libera del mondo intero è la stampa italiana (…) Il giornalismo italiano è libero perché, nell’ambito delle leggi del regime, può esercitare e le esercita, funzioni di controllo, di critica, di propulsione”. Parole che dimostrano la totale avversione nei confronti di un pensiero critico e svincolato dal potere.

Quanto accade ancora in molti stati come accaduto in Algeria il 15 settembre scorso con la condanna a due anni di reclusione al giornalista Khaled Drareni per aver pubblicato articoli sull’”Hirak”, la rivolta popolare che ha costretto alle dimissioni il presidente Abdelaziz Bouteflika nel 2019. Lo ricorda un ampio reportage dal titolo “Professione Reporter: ma in Algeria costa la galera” di Rachida El Azzouzi pubblicato sul Fatto Quotidiano il 21 settembre: «La condanna di Khaled Drareni per “istigazione a manifestazione non armata” e “minaccia all’integrità del territorio nazionale”, suona dunque oggi come un monito per tutti i giornalisti, che in Algeria lavorano già in condizioni molto difficili: il paese è al 146mo posto su 180 nella classifica per la libertà di stampa nel mondo. Questo è il messaggio delle autorità algerine: o ti metti in riga, al servizio del potere, o finisci in prigione. Il messaggio è rivolto – scrive Khaled Drareni – anche quello della libertà di espressione e delle libertà individuali che vengono violate ogni giorno».

Restando in Algeria l’autore de “La libertà di stampa” ricorda un articolo dello scrittore francese Albert Camus scritto nel 1939 quando ad Algeri lavorava come caporedattore del quotidiano “Le Soir républicain” (pubblicato solo nel 2012) «dove spiegava come un giornalista potesse rimanere libero davanti ad un regime illiberale: Erano quattro a suo dire, le virtù da coltivare: “la lucidità, l’opposizione, l’ironia e l’ostinazione” e “la lucidità” presupponeva la “resistenza agli impulsi dell’odio e al culto della fatalità”, spiegava Camus, sostenendo che un giornalista libero, nel 1939, non disperava e lottava per ciò che credeva vero come se la sua azione potesse influire sul corso degli eventi. “Non pubblica niente che possa istigare all’odio o provocare la disperazione. (…) Non c’è coercizione al mondo che possa indurre una persona con un minimo di rettitudine ad accettare di essere disonesta”. Il pensiero di Camus assume un valore straordinario per la sua attualità specie nel segnalare come dovrebbe agire la stampa in generale: “niente che possa istigare all’odio o provocare la disperazione” è quanto sta accadendo nella nostra società dove i titoli di alcuni giornali fomentano ogni giorno reazioni di intolleranza, discriminazione e diffamazione, esaltate anche dai social che le amplificano. Camus aveva centrato in pieno l’oggetto della questione se già nel 1939 affermava l’importanza nell’accertare l’autenticità di una notizia «ed è a questo che un giornalista libero deve prestare tutta la sua attenzione». Un capitolo intero è dedicato anche al mezzo televisivo diventato negli anni uno strumento in possesso di logiche di spartizione politiche: “La libertà d’antenna” descrive l’evoluzione della televisione a partire dal monopolio della RAI fino all’avvento delle emittenti private con la conseguente liberalizzazione del mercato e la supremazia delle televisioni di Berlusconi con le evidenti ingerenze quando da presidente del Consiglio emise il cosiddetto “editto bulgaro” con l’allontanamento di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi colpevoli a suo giudizio di “uso criminoso della RAI” nei suoi confronti.

Esemplare la risposta che Enzo Biagi indirizzò a Berlusconi: «Cari telespettatori, questa potrebbe essere l’ultima puntata de Il Fatto (la rubrica curata dal giornalista in televisione, ndr). Dopo 814 trasmissioni, non è il caso di commemorarci. Eventualmente, è meglio essere cacciati per aver detto qualche verità, che restare a prezzo di certi patteggiamenti». Ma la libertà di stampa non è solo a rischio per la censura adottata da chi vuole zittire la voce dei giornalisti e imbavagliarla: il rapporto stillato dal “Comittee to Protect Journalist” di New York che si dedica alla difesa della libertà di stampa, conta che dal 1992 al 2020 i «giornalisti uccisi nel mondo sono oltre 1.900, una cinquantina dei quali nel 2019». Numeri che dimostrano come sia “un mestiere pericoloso” fare il giornalista e a dirlo è l’organizzazione non governativa francese Reporters sans frontières che ricorda anche i 389 giornalisti incarcerati e 57 tenuti in ostaggio. Cifre che vengono riportate nell’ultimo capitolo “ I nemici di oggi” scritto da Alliotti in cui si può capire come queste cifre dimostrino quanto sia grave allo stato attuale la condizione del giornalismo mondiale. Specie in Cina, Turchia, Arabia Saudita (il brutale assassinio di Jamal Khasoggi ne è la prova), in Egitto (dove attualmente oltre ad aver incarcerato numerosi giornalisti è detenuto anche Patrick Zaki lo studente universitario che frequentava una facoltà a Bologna). Il CPJ esamina stato per stato quanti giornalisti sono attualmente in carcere e segnala che nella sola Turchia alla fine del 2019 erano ben 47. L’Italia nella classifica di Reporters sans frontières per quanto riguarda la libertà di stampa è collocata al 43mo posto su 180 nazioni e cita anche i 20 giornalisti sotto scorta per le minacce subite dalla mafia, camorra e gruppi estremisti.

La Federazione nazionale della stampa ha consegnato di recente al vice ministro degli Interni, Matteo Mauri, un dossier contenente tutte le minacce ricevute dai giornalisti nell’ultimo anno per mano del presidente Beppe Giulietti. Si legge ancora nel libro di Pierluigi Alliotti: «Secondo i dati raccolti da Ossigeno per l’informazione, osservatorio patrocinato dalla FNSI e dall’Ordine nazionale dei giornalisti, nel corso del 2019 sono state documentate e rese note 433 intimidazioni o minacce nei confronti di altrettanti giornalisti o blogger italiani, la gran parte delle quali sotto forma di atti violenti (avvertimenti, aggressioni, atteggiamenti) e abuso di denunce e azioni legale. Le cosiddette “querele temerarie” che il Parlamento ha tentato di risolvere senza ottenere finora risultati». Un testo fondamentale per chi crede in una informazione libera svincolata da forme di controllo preventivo e riduttivo che minacci l’Articolo 21 della Costituzione, baluardo della democrazia e ogni giorno minacciato da chi pretenderebbe di non informare correttamente l’opinione pubblica. Pericolo rappresentato sempre più dalle fake news che imperversano non solo sui social, quanto anche sui media: niente è più grave che siano i giornali o gli altri strumenti di comunicazione a diffonderle.

Con l’aggravante spesso, come spiega Raffaele Lorusso, segretario generale della FNSI, nella sua Premessa a “La passione per la verità” quando «il cronista che racconta la verità e illumina periferie oscurate viene sempre più spesso additato come uno spacciatore di fake news, se non come un nemico del popolo. Questo è il grande inganno del presente. C’è un’idea pericolosa che si è diffusa a tutte le latitudini. Quella secondo cui, grazie all’iperconnettività, si possa fare a meno delle competenze (…) perché uno vale uno». È quanto accade all’interno di gruppi che nascono in rete e diffondono in modo del tutto «autoreferenziale false credenze, pregiudizi, paure e odio per tutto ciò che è diverso – prosegue Lorusso – , per questo è necessario che giornalisti e cittadini abbiano a disposizione gli strumenti per imparare e riconoscere le fake news e scoprirne i meccanismi di produzione e diffusione». Il saggio curato da Laura Nota diventa così uno strumento indispensabile per fare chiarezza su come il devastante problema dell’informazione intossicata e mistificata crea un circolo vizioso da cui è difficile sottrarsi. Il libro nasce dalla raccolta delle relazioni che sono state presentate al Convegno “L’informazione oltre gli stereotipi e le fake news per la costruzione di contesti inclusivi” che si è tenuto all’Università di Padova nel 2019 e curato dalla professoressa Nota. Nella prefazione Vincenzo Milanese (docente di Filosofia Morale a Padova) sottolinea il problema del “disordine informativo” e il conseguente caos comunicativo che oggi è alimentato da un’enorme quantità di messaggi” e fa un distinguo tra “informazione” e “comunicazione” dove la prima «ha come obiettivo la conoscenza» e la seconda mira alla «persuasione».

E non manca la segnalazione dell’aggravante rappresentata dalla “disintermediazione” (l’abolizione dei corpi intermedi rappresentati dai media per comunicare direttamente tra soggetti rappresentati dal cliente e il produttore senza mediazione, ndr). Laura Nota firma il capitolo “Dai rapporti manipolativi ai rapporti inclusivi, equi, sostenibili” e tocca il problema delle fake news: «in particolare quelle che sono state intenzionalmente diffuse, rappresentano la punta di un iceberg, una delle diverse forme con le quali si cerca di agire per il proprio tornaconto nel disprezzo di relazioni umane improntate a umanità, equità, giustizia, con l’intento di creare ulteriore vulnerabilità e problemi, favorire discriminazioni, diseguaglianze, arrivando persino a minare la convivenza pacifica e la stessa democrazia». Un giudizio netto e severo quanto veritiero dove le fake news instillano pregiudizi e forme di violenza se pur verbale (nei social è la consuetudine). «Si è assistito a una riduzione progressiva dello spazio dedicato al giornalismo attento, critico, riflessivo e all’aumento dello spazio dedicato a tematiche marginali, superficiali, se non proprio appartenenti a un’agenda scandalistica (McCurdy, 2012)» – citazione che Laura Nota richiama all’attenzione dei lettori e richiama anche i giornalisti al loro ruolo: «Anche i professionisti nell’ambito dell’informazione e della comunicazione dovrebbero imparare ad agire come “sentinelle” dell’inclusione pronte e cooperare sia per individuare forme comunicative discriminanti e manipolative (la manipolazione dell’opinione pubblica altra emergenza da affrontare, ndr), sia per dare vita e buone pratiche informative, comunicative, incentrate su una visione inclusiva e sostenibile della realtà».

La docente universitaria si sofferma anche sul ruolo educativo e formativo auspicabile per chi si occupa di informazione «per far comprendere con alfabetizzazioni economiche, tecnologiche, psicologiche, le minacce del XXI secolo, ma soprattutto di riflettere sulle motivazioni e sulle ragioni umane che ne stanno alla base». Ecco il punto focale che merita sempre più attenzione per contrastare le fake news. Impedire la manipolazione e l’inganno e implementare una cultura capace di riconoscere l’attendibilità di quanto viene comunicato. Paolo Pagliaro nel suo contributo scrive che è necessario «liberarsi dalla dittatura dei social. Liberare i media dalla subalternità al mondo dei social. È cresciuta una generazione di giornalisti indotta a pensare che i social siano lo specchio degli umori correnti. Una fonte di informazione attendibile. È un equivoco alimentato dalla pigrizia, dallo spirito del tempo, forse anche dalla superficialità e dalla fretta». Non va dimenticato l’insorgenza di una forma di narcisismo digitale che si propaga sempre più nel cercare visibilità. Paolo Pagliaro in “Cinque o sei cose che potremmo fare”, segnala quanto sia pericolosa «l’abolizione di ogni filtro professionale, la rinuncia delle verifiche, il rifiuto della famigerata mediazione» responsabile di aver fatto spazio alla «manipolazione, non alla democrazia dell’informazione ma alla dittatura della comunicazione».

Lo rileva anche uno studio del Media Lab di Boston pubblicato su Science, come ricorda Enrico Ferri (giornalista e già vicesegretario della FNSI) in “L’odio riscalda il cuore” (citando Umberto Eco in un suo scritto dedicato, appunto, al tema dell’odio, ndr) dove è stato riscontrato che una falsa notizia abbia il 70/% di possibilità (fonte Twitter) di essere “ritwittata” al posto di una notizia vera. «E più la si smentisce, anche attraverso la pur meritoria attività di “debuking”, più si autoalimenta in rete. Un disorientamento, quello creato dall’irrilevanza della verità che cresce – scrive Ferri – se a lanciare parole d’odio, razziste e omofobe, sono i leader politici o le istituzioni. Che l’immigrazione sia il “regno delle fake news” e della disinformazione è una constatazione pacifica tra gli studiosi dei numerosi enti, a livello globale, che studiano il fenomeno che ha raggiunto l’apice con la scandalo Cambridge Analytica». L’Italia ha un triste primato a riguardo: «considerato uno dei Paesi più disinformati sul tema delle persone con storie di migrazione, come rileva Paolo Pagliaro nel suo “Punto. Fermiamo il declino dell’informazione”. Lo sostiene anche la relazione finale della Commissione parlamentare sulla xenofobia e il razzismo Jo Cox. L’Italia viene classificata come il Paese con il più alto tasso di ignoranza al mondo, sul tema dell’immigrazione».

La stampa italiana in particolare quella vicina alle posizioni della di destra ha una responsabilità non indifferente nel fomentare sentimenti di odio verso chi si ritiene un’invasore o un diverso. Non esiste in Italia una normativa che punisca l’odio per “l’hate speech” diffuso in rete. Enrico Ferri per arginare questa deriva propone di «iniziare dai giovani con l’educazione ai diritti umani, alla libertà di espressione, e al mondo digitale per promuovere iniziative concrete, buone pratiche, percorsi inclusivi, è probabilmente la strada più lunga, ma anche quella che potrà dare risultati stabili nel tempo, strategie di lungo periodo, oltre le logiche emergenziali». Ferri segnala anche l’importanza della Carta di Roma che «raccomanda di segnalare l’origine etnica o religiosa, la nazionalità, solo quando essenziale alla comprensione della notizia, lo spazio assegnato a una notizia deve essere il medesimo, si tratti di italiani oppure non italiani, evitare nei titoli e nelle locandine, il sensazionalismo che possa provocare allarme sociale».

Una raccomandazione disattesa per le troppe violazioni ai principi della Carta e uno degli esempi più eclatanti di questa grave disinformazione è quello accaduto con l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega dove i giornali hanno diffuso la falsa notizia che attribuiva l’omicidio a dei magrebini senza aver verificato la veridicità della notizia. “Il sonno della ragione genera mostri” è il titolo di un articolo pubblicato sul sito www.articolo21.org in cui si esamina la diffusione via social della notizia falsa ripresa poi dai giornali. «La nazionalità diventa un fatto politico – prosegue Ferri – la “bufala” è rilanciata da quasi tutti i quotidiani e le tv per ore. Il linguista Federico Fallopa segnala come “la Carta di Roma viene spesso disattesa dalle stesse testate che l’hanno sottoscritta”, e l’ex presidente dell’Associazione Carta di Roma, Giovanni Maria Bellu aggiunge: «La Carta non dà consigli ma prescrizioni vincolanti per tutti i giornalisti iscritti all’Ordine, spesso non sono seguiti atti concreti o sanzioni, da parte dell’Ordine nazionale dei giornalisti». Un maggiore rigore per far rispettare un principio cardine della Carta sarebbe auspicabile per non alimentare il clima d’odio che avvelena la convivenza civile e il rispetto per il prossimo.

Il libro che sarà presentato a Bolzano il prossimo 28 settembre con la partecipazione di Giuseppe Giulietti presidente della Federazione nazionale della stampa, Federico Boffa e Francesco Ravazzolo, professori della Libera Università di Bolzano, contiene delle riflessioni mirate a dare un contributo essenziale per chi legge nell’evitare il rischio di non «perdersi nella società della Post Verità, del tutti contro tutti, di una persona sola al comando e di immaginare futuri diversi, incentrati su equità, giustizia sociale, diritti umani, sostenibilità e inclusione», che solo una stampa basata sulla veridicità delle fonti, attenta a non cadere negli stereotipi di una informazione appiattita sul sensazionalismo, potrà avere credibilità nei lettori. Le buone pratiche devono essere perseguite da una stampa che sappia usare le parole con il loro senso appropriato e non come delle “pietre” definizione ripetuta da Giuseppe Giulietti nel suo paragrafo “Le parole non sono pietre”, citando l’articolo 3 della Costituzione: «che meglio simboleggia lo “spirito dei tempi”, della stagione della ricostruzione post – bellica. Al contempo, è anche il più distante, invece, dall’attuale “spirito dei tempi”, segnato fortemente dai venti di un sovranismo che esalta i miasmi del razzismo, dell’esclusione sociale, della negazione delle differenze e delle diversità». Non è un caso che Giulietti citi Orbán il Presidente ungherese responsabile di aver attaccato brutalmente le Convenzioni internazionali sui diritti, limitando la libertà di stampa nel suo Paese. L’analisi di tutte le Carte (da quella di Fiesole, Assisi, Roma, Venezia, Trieste, a quella di Padova, è una precisa e puntuale disamina di come i doveri dei giornalisti, i codici deontologici non vengono rispettati: «Quello che balza immediatamente agli occhi è la contraddizione tra il rigore delle norme e la loro sistematica e quotidiana violazione – scrive il presidente della FNSI – , basterà leggere le relazioni predisposte dalla Carta di Roma in materia di razzismo e discriminazione, per comprendere come, nella pratica quotidiana, tali norme siano aggirate o palesemente disprezzate; basti pensare agli editoriali di Vittorio Feltri, o al linguaggio usato da testate come “La Verità, ma cadute di stile e disprezzo della Carta dei doveri si registrano anche in altre testate e nelle stesse emittenti nazionali pubbliche e private, per non parlare dei blog e dei siti, che, spesso, sfuggono a qualsiasi controllo e sono diventati luoghi dove la Costituzione e i codici, civile e penale, sembrano non avere più diritto di cittadinanza».

Duole dover sottolineare questa affermazione così drammaticamente vera per una categoria che appare smarrita nel mantenere una credibilità indispensabile per poter svolgere il proprio ruolo. Se lo chiedono tutti gli autori contenuti nel volume e la domanda: “Avrà la democrazia gli anticorpi per resistere a ogni disarticolazione autoritaria”, non è retorica, ma svela l’urgenza di rimediare ad una problematica che fa dell’Italia un paese poco credibile e indifendibile da questo punto di vista. Per chi scrive e si è occupato anche di Sars-Cov-2 o Coronavirus in questi mesi di pandemia, si è trovato a confrontarsi con una narrazione giornalistica a volte fuorviante e poco attendibile, sbilanciata sul cercare di fornire risposte pseudoscientifiche al limite del paradossale. Tutto e il contrario di tutto con l’aggravante (in alcuni casi) di aver dato eccessiva importanza a pareri medici che si smentivano quotidianamente tra di loro come se fosse una gara ad arrivare per primi a identificare un virus dalle caratteristiche sconosciute alla scienza.

Non è semplice compendiare due testi così impegnativi quanto utili per chi desidera approfondire le tematiche sopraesposte e si rimanda alla lettura completa de La libertà di stampa e La passione per la verità: non c’è libertà se viene a mancare la verità e l’informazione se ne deve assumere la responsabilità per evitarne la scomparsa.

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“L’atomo opaco del Male” che ha spezzato la vita di Willy

Giovanni Pascoli a seguito della scomparsa tragica della morte del padre, avvenuta il 10 agosto del 1986, in circostanze rimaste ignote, scrisse la poesia X Agosto dedicandola alla sua memoria. L’ultimo verso recita: «E tu, cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male!» Lo possiamo paragonare a ciò che è diventato il nostro paese? Un “atomo opaco del Male” dove la violenza si è insinuata nelle pieghe di una società sempre più a rischio di imbarbarimento. L’odio diffuso assume sempre più una forma esasperata che si manifesta non solo con atti di aggressività fisica, ma anche tramite il linguaggio delle parole scelte per scagliare pensieri di intolleranza, razzismo e supremazia nei confronti di chi è diverso da noi per colore della pelle, provenienza etnica, condizione sociale. Anche di fronte ad azioni criminali e delittuose sembra ergersi una difesa ad oltranza del colpevole e mai della vittima, come se il responsabile di un gesto o di un’azione lesiva nei confronti del prossimo, possa essere giustificato e non certo per legittima difesa.

Il Male che sovrasta ogni forma di pietà e di compassione si sta impossessando sempre più nell’esprimere sentimenti feroci dove è assente qualunque logica e razionalità nel saper discernere tra chi ha procurato violenza e chi, invece, l’ha subita. L’omicidio di Willy è l’ultimo caso di cronaca che l’Italia deve registrare quasi quotidianamente e appare come la plastica dimostrazione delle parole del poeta. Non a caso il Fatto Quotidiano di domenica 13 settembre, nel riportare la descrizione del suo funerale titola: Addio, piccolo Willy: il feretro della civiltà è accanto alla tua bara“. Un sinistro presagio diventa crudele realtà a cui sembriamo ormai tutti assuefatti e impotenti. Se lo chiede giustamente Enrico Fierro, l’estensore dell’articolo: «Ma la Politica, il mondo culturale e dell’informazione, l’opinione pubblica, hanno capito cosa siamo diventati? Hanno capito che nella bara invisibile abbiamo tumulato la pietà, la compassione, il rispetto della vita umana? Ci vorrebbe un poeta d’altri tempi per sbatterci in faccia quello che rifiutiamo di vedere. L’omologazione, l’obbligo di dover essere tutti uguali nell’illusione». La violenza comunicativa della politica non è esente da una responsabilità per lo meno morale.

Il giornalista sa a chi riferirsi: un poeta contemporaneo nel senso più vasto del termine, che non solo aveva capito ma ne ha pagato tragicamente le conseguenze per essere stato assassinato: «La cultura della sopraffazione, il linguaggio sbrigativo e violento. Un poeta c’era e una cinquantina d’anni fa seppe prevedere cosa saremmo diventati. Pier Paolo Pasolini lo uccisero il giorno dei morti nel 1975, una sera, ad Ostia. A calci , pugni, colpi in testa. Come Willy.» E Willy lo continuano ad uccidere con altrettanta violenza chi usa i social per scaricare o meglio “vomitare” su una vittima inerme e privata della sua vita con l’unica colpa di aver cercato di fermare altra violenza: «Spero che vengano liberati presto, non è giusto che siano in carcere per un delinquente che è arrivato qua sicuramente in modo illegale, anche se mi dispiace per sua madre che percepirà 35 euro in meno al giorno. RIP».

Il nome di chi si firma è di una donna ma dietro il suo profilo è facile che si celi un’identità diversa. Come possa arrivare una mente umana a trarre una conclusione del genere è praticamente impossibile e forse potrebbe diventare materia d’indagine della psicoanalisi nel tentare di trovare quell’”atomo opaco del Male” capace di danni irreversibili anche solo con il disprezzo della vita altrui. Inutile cercare altre spiegazioni come da giorni cercano di scoprire i mass media andando a rovistare nelle vite di chi ha commesso questo efferato delitto. E a chi, sempre sui social, diventati una discarica dei più abietti, aberranti commenti, applaude il martirio subito da Willy, chiamando “eroi” i sospettati aguzzini, solo per aver eliminato una “scimmia”; tocca profondamente nell’animo la risposta della madre Lucia Monteiro nel suo composto e riservato dolore (encomiabile la riservatezza e il rifiuto di rilasciare interviste da parte della famiglia del ragazzo nato in Italia ma di origini capoverdiane): «Mi hanno portato via mio figlio in modo orribile. Gli hanno fatto male, tanto male. Picchiato in maniera selvaggia. Avrà sofferto, chissà quanto. E lui che non poteva fare niente, a terra, indifeso. Lui aveva tanto da vivere. Non cerchiamo vendetta, vogliamo solo giustizia. Crediamo nei giudici e a loro chiediamo di farla. A nessuno, mai, deve capitare in futuro quello che è accaduto».

Gli odiatori seriali da tastiera abbiano la decenza di rispettare un dolore che ha procurato sgomento in tutta Italia e non solo, ammettendo una volta tanto che il loro odio è verso se stessi per l’incapacità di amare e di essere amati. Franco Floris direttore della rivista “Animazione sociale” nell’intervenire ad un convegno sulla qualità dei servizi alla persona spiegava come «(…) dentro la vita sociale ogni persona ha l’esigenza di riscoprire, lungo le fasi della vita, che legame ci sia tra l’essere io-me e l’essere io-noi. In altre parole, ogni persona ha da riscoprire qual è il cordone ombelicale che lo lega agli altri. Questo è un problema enorme, perché in questo momento ci sono intere fasce non solo di giovani, ma di adulti che non sanno più trovare quale sia quel legame che li unisce agli altri e che permette loro di sentirsi un noi collettivo, prima che un individuo singolo». Willy lo aveva trovato quel legame e qualcuno l’ha spezzato con inaudita ferocia.

«Siamo sconvolti per la morte di Willy, pestato a morte per aver difeso un amico contro la violenza. Il suo volto sorridente resterà come un’icona di amicizia e di solidarietà, che richiama i compiti educativi e formativi della scuola e dell’intera nostra comunità. In coerenza con questi valori occorre spiegare il massimo impegno per contrastare chi pratica una violenza vile e brutale, chi la predica o la eccita nei social». Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, discorso in occasione della cerimonia d’inaugurazione dell’anno scolastico 2020/21 alla scuola “Guido Negri”, di Vò Euganeo

Pubblicato sul sito www.articolo21.org

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Grandi, Cibio Trento: «Sperimentiamo vaccino su piattaforma innovativa»

Il Centro di Biologia Integrata (CIBIO) dell’Università di Trento opera nell’area delle biotecnologie per la salute umana e svolge il suo programma suddiviso in diversi laboratori di ricerca, guidati da ricercatori indipendenti in quattro diverse aree: Genomica e Biologia del Cancro; Biologia Cellulare e Molecolare; Microbiologia e Biologia Sintetica e Biologia dello Sviluppo e Neurobiologia. Dispone di piattaforme tecnologiche che supportano le attività di ricerca dei laboratori dove vengono eseguite tra le altre ricerche anche quella sul sequenziamento del DNA.

Guido Grandi direttore del CIBIO di Trento

Il direttore vicario del CIBIO è il dottor Guido Grandi laureato in scienze biologiche, professore ordinario presso il Dipartimento di Biologia, Computazionale e Integrata dell’Università di Trento dove insegna Immunologia e Vaccinologia. Fino al 2014 ha ricoperto l’incarico di Senior Project Leader per la multinazionale farmaceutica Novartis Vaccines. Autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche e inventore/co-inventore di oltre 450 brevetti internazionali, il professor Guido Grandi, insieme al professor Massimo Pizzato, virologo del Centro di Biologia Integrata, collabora con la Start-up BiOMViS srl di Siena (dove il figlio, Alberto Grandi è responsabile scientifico) su un progetto mirato a sviluppare un vaccino per il Coronavirus classificato come Sars-Cov2.

Professor Grandi ci descrive come state procedendo nella sperimentazione del vaccino?

«Ad oggi sono più di 150 i gruppi nel mondo che si stanno dedicando alla ricerca di un vaccino per il Sars-Cov-2 e 23 di questi vaccini in corso di sviluppo sono in fase sperimentale sull’uomo. Si parla di fase 1 quando la sperimentazione avviene su un campione limitato di volontari allo scopo di verificare la “sicurezza del vaccino” e al tempo stesso di testarne l’immunogenicità. Nel caso degli studi sull’uomo attualmente in corso per il vaccino contro SARS-CoV-2, per seguire l’immunogenicità si va ad osservare se nei volontari la vaccinazione induce la produzione di anticorpi capaci di riconoscere il virus e di bloccarne l’ingresso nelle cellule. La fase 2 prevede un campione di volontari più ampio dove il disegno dello studio è pensato per rinforzare i dati di sicurezza ma anche per generare i primi dati di efficacia. Quando si passa alla fase 3 la somministrazione sperimentale si espande a molti più soggetti per confermarne l’efficacia su un numero statisticamente più significativo. Se alla fine della fase 3 i dati sono in linea con le aspettative fissate, si passa alla registrazione. Normalmente gli studi clinici sull’uomo richiedono 6-8 anni e pertanto, aggiungendo a questi i tempi necessari alla ricerca/sviluppo e alla registrazione, ne consegue che mettere sul mercato un vaccino richiede dai 10 a 14 anni.

E’ evidente che queste tempistiche non sono compatibili con epidemie quali quella che stiamo sperimentando con SARS-CoV-2. In situazioni di questo genere, le strategie – prosegue il professor Grandi – prevedono di comprimere quanto più possibile i tempi necessari al completamento di ciascuna fase. A questo scopo le fasi 2 e 3 tendono ad essere programmate prima della chiusura della fase che le precede, ed attivarle con la massima rapidità, fatto salva la necessità di garantire elevati standard di sicurezza. Relativamente agli studi di efficacia (Fase 2 e Fase 3) questi normalmente prevedono il reclutamento di due gruppi di volontari, ad uno dei quali viene somministrato il vaccino mentre al secondo del placebo. Quindi si confronta il numero dei casi di infezione che si registrano in entrambi i gruppi in un certo periodo di tempo. E’ evidente che più elevata è l’incidenza dell’infezione minore è la dimensione dei gruppi necessaria ad ottenere dei dati statisticamente significativi. Nel caso di Covid-19, se è vero che il virus può avere un’incidenza molto alta, è altrettanto vero che il numero dei casi può cambiare velocemente nel tempo. Basti pensare all’Italia, paese che ha visto una crescita molto elevata del numero di casi nei mesi di Marzo-Aprile e dove ora le infezioni appaiono molto ridotte. In queste condizioni eseguire studi di efficacia può essere problematico. Per questo motivo, le autorità regolatorie potrebbero decidere di registrare un vaccino anche solo sulla base di “correlati di protezione”.

Nel caso di Covid-19, poiché la presenza di anticorpi capaci di neutralizzare l’ingresso del virus nelle cellule sembra essere sufficiente a impedire l’insorgere dell’infezione (almeno nelle sue manifestazioni più gravi) le autorità regolatorie potrebbero prendere in considerazione la registrazione di un vaccino sulla base del fatto che questi sia in grado di indurre nei vaccinati elevati titoli di anticorpi neutralizzanti, e che abbia dato buone risposte in modelli animali di infezione. Se questa procedura di registrazione avverrà o meno, dipenderà da un’attenta valutazione del rischio-benefico e dall’impatto che la non disponibilità di un vaccino può avere sulla salute pubblica e sul tessuto economico. Al momento, tutte le fasi 2/3 prevedono la valutazione dell’efficacia, con alcuni vaccini che si prefiggono di vedere almeno una riduzione significativa sulle forme severe della malattia, altri che invece mirano a bloccare l’infezione, indipendentemente dalle manifestazioni patologiche. Va infine ricordato un progetto innovativo sostenuto dal WHO (World Health Organization), denominato “Solidarity”.

Nell’ambito di questo progetto, WHO seleziona i vaccini che hanno effettuato la Fase I e coordina studi multi-centrici di Fase 2/3. Così facendo gli sviluppatori di vaccini che aderiscono al progetto, al di là di dover fornire le dosi di vaccino, non devono preoccuparsi dei costi e dell’organizzazione degli studi di efficacia. Al tempo testo il progetto consente di confrontare i vari vaccini tra loro e di selezionare quelli a maggiore potenziale. Infine, essendo lo studio multi-centrico a livello mondiale, sarà possibile stabilire l’efficacia dei vaccini anche su diversi background generico-ambientali delle popolazioni e su diverse varianti del virus circolante.

Relativamente al nostro vaccino in fase di sperimentazione pre-clinica, questi è basato su una piattaforma innovativa che prevede l’uso di vescicole di membrana (OMVs) di Escherichia coli, un batterio completamente innocuo per l’uomo. Tali vescicole sono state ingegnerizzate con porzioni di proteine virali. Quando abbiamo usato le vescicole per immunizzare animali di laboratorio (topi), è stato possibile dimostrare che i topi sviluppavano anticorpi capaci di neutralizzare l’ingresso del virus nelle cellule umane in cultura. La dimostrazione della capacità neutralizzante degli anticorpi è stata possibile grazie alla disponibilità di un saggio “in vitro” messo a punto nei laboratori del professor Pizzato.
Stiamo ora cercando dei partners finanziari/industriali interessati a portare il nostro candidato vaccino sino alle fasi cliniche. Considerando la semplicità e l’economicità del processo di produzione delle OMVs, riteniamo che il nostro vaccino possa rappresentare una valida alternativa, specialmente per i paesi in via di sviluppo».

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Anna Maria Andena: esempio virtuoso della sanità nel territorio di Piacenza. Tremila pazienti curati a domicilio

Oltre tremila pazienti curati a domicilio in tutta la provincia di Piacenza per l’emergenza da coronavirus sette giorni su sette dalle 8 di mattina alle 20 di sera: un esempio virtuoso di come la sanità emiliana sia stata capace di affrontare l’emergenza sanitaria da Sars-Cov-2. È accaduto a Piacenza dove l’Azienda Sanitaria riunisce in un solo assetto organizzativo sia l’ospedale che il territorio di tutta la provincia. I servizi territoriali sono stati attivati grazie all’efficienza dei sistemi integrati di gestione dell’informazione rivolte alla popolazione coordinando i dipartimenti in un’unica realtà operativa. La responsabile di questa gestione che ha permesso di contenere l’infezione da Covid-19 è la dottoressa Anna Maria Andena laureata in Medicina e Chirurgia che dirige il Distretto Azienda Sanitaria Locale di Piacenza (nel suo curriculum figurano anche incarichi svolti: direttore UOC Governo territoriale dell’Azienda sanitaria locale; Produzione cure primarie Asl; Referente aziendale MMG responsabile dei referenti e coordinatori NCP della provincia di Piacenza), ci spiega i risultati raggiunti in tutto il territorio piacentino.

«Il ministero della Sanità, ad inizio del mese di marzo, aveva dato indicazioni alle Regioni di istituire le “Unità speciale di continuità assistenziale (USCA), consapevoli della fase critica in cui ci trovavamo e coscienti della necessità che la medicina generale doveva essere messa nelle condizioni di gestire anche l’attività “ordinaria” della medicina di base, ci siamo subito attivati per garantire ai medici di proseguire senza l’interferenza della chiamata a domicilio. Il 16 marzo la Regione ci ha fornito le linee guida».

Piacenza veniva a trovarsi in una situazione di emergenza sanitaria drammatica con il pronto soccorso dell’ospedale in crisi per i continui ricoveri di malati affetti da polmoniti interstiziali. Era necessario alleggerire la pressione sui reparti ospedalieri.

«Dopo i primi dieci giorni dall’inizio dell’epidemia Piacenza, una provincia al confine, si è dimostrata una diga alla diffusione dell’infezione rispetto ad altre zone dell’Emilia Romagna. Nella nostra città non esiste un’azienda ospedaliera e una territoriale ma è unificata così ho avuto la facoltà di chiedere aiuto al Territorio. Noi abbiamo avuto mille decessi su 290mila abitanti. Era necessario intervenire per rilevare a domicilio il contagio ma anche gestire altre patologie altrimenti trascurate a causa del Covid-19. Grazie alla collaborazione di venti medici e infermieri abbiamo creato sei unità sanitarie da inviare sistematicamente in tutta la provincia dalle 8 di mattina alle 20 di sera, sette giorni su sette. Sono stati ben 3197 gli accessi complessivi. Il Dipartimento delle Cure Primarie ha interpellato i colleghi per selezionarli e creare le squadre di pronto intervento. Abbiamo iniziato gli addestramenti intensivi per chi si era candidato per fornire le necessarie competenze in diagnostica ecografica toracica. Il 16 marzo la Regione ci ha fornito le linee guida che ci hanno permesso di creare le USCA dotate di strumentazioni adatte alla valutazione clinica.

Va detto che il nostro pronto soccorso da anni esegue la diagnostica ecografica -toracica su tutti i pazienti al fine di discriminare le condizioni patologiche anche senza il tampone. Fondamentale si è rilevata la collaborazione – integrazione con i medici curanti di medicina generale per la continuità assistenziale (Piacenza è la sede didattica) che sono stati coinvolti nella programmazione e preparazione di come adottare i dispositivi di protezione individuale e la vestizione con un corso intensivo. Il 23 marzo tutti i pazienti erano stati segnalati dai medici di base e di famiglia e questo ha permesso di alleggerire l’attività delle cure ordinarie da sospetti Covid-19. Le segnalazioni valutavano le condizioni e la sintomatologia le co-morbilità croniche, le terapie in corso (croniche ed acute) che rendevano il paziente a rischio. A domicilio sono stati rilevati i parametri quali la saturazione, temperatura e frequenza cardiaca, eseguite le ecografie toraciche e gli elettrocardiogrammi per diagnosticare e confermare sospetti covid e prescrivere le terapie (prescrizione di farmaci come l’idrossiclorochina in un primo tempo ritirata dall’Aifa e dall’Oms, poi rintrodotta. Lancet aveva pubblicato uno studio che smentiva la sua efficacia contro il coronavirus, per poi ritirarlo. Somministrazione di antivirali, antibiotici, eparina, ndr) e i tamponi».

I risultati si sono visti: meno cure in ospedale e più cure a casa con controlli telefonici a distanza di pochi giorni dalla visita. I medici e gli infermieri di Piacenza si sono dimostrati dei professionisti capaci di lavorare in modo encomiabile, ci spiega la dottoressa Andena: «Si sono alternati senza mai cedere a demotivazioni o lamentandosi, capaci di visitare dalle 60 alle 90 persone al giorno spostandosi dalla pianura alla montagna, percorrendo centinaia di chilometri. È stato deciso di intervenire anche nelle strutture socio assistenziali per gli anziani e disabili, nelle rsa. Dal 23 marzo in poi gli accessi in pronto soccorso per polmoniti interstiziali sono drasticamente ridotti fino a quasi azzerarsi nel corso del mese di maggio.

Analoga attività è stata portata avanti in modo autonomo dal dottor Luigi Cavanna primario di oncoematologia, che insieme all’infermiere Gabriele Cremona, ha eseguito circa 270 accessi su pazienti prevalentemente oncologici per garantire cura e sorveglianza evitando l’accesso in ospedale di questa popolazione di pazienti che hanno una particolare fragilità».

Un merito del totale blocco e isolamento domiciliare della popolazione e della gestione sanitaria?

«Quello che è certo è che questo tipo di diagnostica spinta non è eseguita in nessun’altra parte d’Italia. Il controllo telefonico, l’ossigenoterapia a domicilio, la quotidiana registrazione sui pazienti, l’ossigeno periferico auto misurato, hanno dato ottimi risultati. Ci deve insegnare per il futuro come affrontare il proseguo del tempo cuscinetto, di come dotarsi di strumenti, mezzi e personale e gestire un’emergenza straordinaria. Nel mese di gennaio né l’OMS né l’Istituto superiore di sanità aveva dichiarato l’allarme».

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Il presidente dell’Ordine dei Medici di Trento Marco Ioppi: “è mancata una visione strategica per il Covid-19”

Il dottor Marco Ioppi è il presidente dell’Ordine dei Medici di Trento e ha svolto la sua carriera, prima di andare in pensione, come medico ospedaliero specializzato in ostetricia e ginecologia e endocrinologia all’Ospedale Santa Chiara di Trento e all’Ospedale S. Maria del Carmine di Rovereto con le funzioni di direttore dell’Unità Operativa. La gestione dell’emergenza sanitaria, causata dall’infezione da Covid-19 in Trentino, lo ha profondamente amareggiato. Gli appelli rivolti dal suo Ordine alla Giunta provinciale sono rimasti tutti inascoltati. In Trentino si sono registrati 467 decessi a fronte dei 292 della Provincia di Bolzano ma il dato complessivo dei positivi (per la provincia di Trento) è stato ricalcolato quando ci si è accorti che ne mancavano quasi 400 ( l’errore sta nella comunicazione  da parte della Provincia di Trento alla Protezione Civile di Roma) e questo ha inciso negativamente sull’indice di trasmissibilità Rt (la misura della potenziale trasmissibilità della malattia legata alla situazione contingente che sta a significare la misura di quanto accade nel contesto. Il contenimento per ridurre il numero dei contagi.   analisi dei dati sulla diffusione del virus sars cov-2 FBK  

Nella classifica dell’indice Rt stimato il Trentino si poneva al terzo posto fra le regioni italiane con un valore di 0,77: un dato che era stato presentato il 23 maggio scorso a Roma durante il Report redatto dall’Istituto superiore di sanità in collaborazione con la Fondazione Bruno Kessler di Trento a cui era presente  Stefano Merler epidemiologo che lavora presso la FBK, il quale aveva dichiarato che «il corona virus circolava in Lombardia e in altre regioni come il Trentino ben prima del 20 febbraio e non escluderei anche che fosse presente ancor prima del 2020 per trasmissione asintomatica»

Il coronavirus è comparso in Italia già negli ultimi mesi del 2019?

Uno studio dell’Istituto superiore di sanità ha scoperto la presenza del Sars-Cov-2 nelle acque di scarico di Milano e Torino, analizzate su campioni prelevati in precedenza alla scoperta dell’infezione a fine febbraio 2020. Un’analisi retrospettiva simile è stata fatta anche in Spagna nelle acque reflue di Barcellona a metà gennaio dove sono state riscontrate tracce di rna di Sars-Cov2 e in Francia dove era stato diagnosticato il Covid-19 in un paziente a dicembre 2019. L’inquietante interrogativo si fa avanti dopo la denuncia di 110 polmoniti atipiche classificate con «agente non specificato» riscontrate all’Ospedale di Alzano Lombardo Pesenti – Fenaroli tra il mese di novembre dell’anno scorso e febbraio 2020.

Anche all’Ospedale di Piacenza era stato segnalato un aumento anomalo di polmoniti (vicino c’è Codogno dove era stato rilevato il primo caso ufficiale conclamato: il paziente 1, Mattia Maestri, ricoverato all’Ospedale di Codogno e diagnosticato da Annamaria Malara, anestesista che è stata insignita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica). Esiste anche uno studio condotto dall’Università di Milano che verrà pubblicato sul “Journal of Medical Virology” e inviato anche all’OMS, in cui verrebbe confermata la presenza dell’epidemia in Italia tra ottobre e novembre del 2019. diffusione del covid-19 in Lombardia

«Dall’inizio della comparsa del Sars Cov 2 nella nostra Provincia, come Ordine dei medici – ci spiega il dottor Ioppi – abbiamo inviato otto lettere protocollate al presidente della Giunta Maurizio Fugatti e all’assessore alla salute Stefania Segnana, con l’intento di segnalare situazioni da correggere, da migliorare, cosciente del dovere di essere il più oggettivi possibile e offrendo contributi che ci vengono dall’esperienza e dalla competenza. Quello che abbiamo visto è la superficialità delle scelte compiute per decisione da parte della Giunta provinciale nell’ affidarsi a persone fedeli allineate e non ad esperti competenti, le quali potevano mettere in evidenza delle situazioni scelte non funzionali e non idonee al benessere e alla salute della popolazione. La nostra Provincia è piccola e non è sottoposta ai flussi elevati come in Lombardia dove l’inquinamento è stato chiamato in causa per aver aggravato la diffusione del Covid-19 e la densità di popolazione così alta ha permesso al virus di circolare velocemente. Il Trentino è risultato terzo per mortalità dopo la Lombardia e il Piemonte. covid19 Trentino

Ci dobbiamo chiedere allora dove abbiamo sbagliato e sarebbe grave la decisione di archiviare quanto è accaduto dimenticando gli errori commessi. I decessi che abbiamo registrato nelle residenze socio assistenziali è un dato che pesa. Questo ci deve indurre a farci riflettere per creare una mentalità in grado di insegnare per il futuro a gestire diversamente. L’aver trattenuto gli ospiti affetti dal Covid-19 nelle strutture residenziali ha determinato molti decessi. I dati della diffusione del contagio sono stati analizzati insufficientemente e l’Ordine dei medici ha cercato di stimolare una massa critica utile a favorire una maggiore difesa e prevenzione anche per il domani nel caso dovessimo gestire una nuova emergenza.

Ad inizio del mese di marzo – prosegue Marco Ioppi – abbiamo segnalato la gravità di quanto accadeva nelle regioni limitrofe (Veneto e Lombardia dove erano state istituite già delle “zone rosse”) in considerazione del fatto che in Trentino si stava sottovalutando come se nulla potesse accadere e il Covid-19 non ci fosse. Chiedevamo altre misure restringenti avendo 15 giorni di vantaggio rispetto ad altre regioni».

Misure che all’inizio non sono state ritenute necessarie. Anche l’ex direttore generale dell’Azienda provinciale servizi sanitari, il dottor Paolo Bordon (dopo le sue dimissioni è stato nominato direttore dell’Azienda sanitaria di Bologna) aveva segnalato (in riferimento alla mancata chiusura degli impianti sciistici avvenuta solo dopo il 9 marzo per decisione del governo) che «i turisti e sciatori provenienti dalle regioni limitrofe come quella della Lombardia hanno contribuito a diffondere il contagio tra i residenti che lavoravano sulle piste da sci».

Nelle cinque zone sciistiche del Trentino in cui sono stati riscontrati maggiori contagi da Covid-19, l’infezione ha colpito una persona su quattro corrispondente al 23 per cento della popolazione (studio pubblicato dall’Istituto superiore di sanità in cui si evidenziano le percentuali di positività: “27,73 per cento a Canazei; 24,7 per cento a Campitello di Fassa; 23,61 per cento a Vermiglio; 20,97 per cento a Borgo Chiese, 17,81 per cento Pieve di Bono-Prezzo”

Intanto dalla vicina Austria arriva la notizia di un nuovo focolaio che si è diffuso a Lienz dove sono stati riscontrati 175 contagi tra la popolazione e 1400 sono le persone sottoposte alla quarantena. In Italia ad oggi si registrano dieci focolai anche se la situazione è contenuta per via che l’indice di contagio è sotto lo zero, eccetto per il Lazio salito a 1. I contagi sono avvenuti a Mondragone in Campania; a Palmi e Porto Empedocle in Sicilia; a Roma (Ospedale San Raffaele, Garbatella e in un istituto religioso); in provincia di Prato e Pistoia; a Bologna sono risultate 64 i casi positivi avvenuti nell’azienda Bartolini, di cui 47 sono dipendenti interni. A Bolzano è sotto osservazione in quarantena una famiglia di 11 persone; altri contagi si registrano nelle città di Como e Alessandria.  Vicenza dove un nuovo cluster (focolaio) ha riportato il Veneto al rischio elevato di 1,63 con 5 nuovi positivi e 89 persone in isolamento, questo perché un uomo tornato dalla Bosnia ha rifiutato il ricovero in ospedale dopo essere stato visitato e risultato positivo al tampone.  Le successive frequentazioni sociali hanno determinato un espandersi del contagio. «Una situazione preoccupante che se peggiorasse ulteriormente dovrà essere gestita con una nuova fase di chiusura – ha spiegato il virologo Andrea Crisanti – perché i contagi attuali non vanno sottovalutati».

Cosa sappiamo e cosa no di Covid-19?

«La pandemia ha messo in evidenza un sistema sanitario nazionale con delle fragilità evidenti! – aggiunge il presidente Ioppi – causa il risultato dei tagli sulle risorse destinate alla sanità, basti vedere come hanno fatto in Lombardia destinando i finanziamenti alla medicina privata, a differenza del Veneto che ha mantenuto maggiori investimenti su quella pubblica. L’organizzazione in questa regione, eccetto il policlinico universitario di Padova e Borgo Roma a Verona che sono amministrazioni a sé stanti, tutte le altre direzioni sanitarie sono unite: sia quelle ospedaliere che territoriali. Anche Trento un tempo aveva un solo direttore sanitario responsabile  ospedaliero  e per il territorio, scelta poi modificata per nominarne due. Il budget sulla sanità trentina considerato come una legge di spesa ha pesato sulla decisione di tagliare 300 posti tra i sanitari, riducendo il numero di medici e infermieri, oltre ad aver smantellato il laboratorio di virologia.

La medicina viene considerata una risposta ai bisogni individuali della persona e di fatto trascura temi come l’igiene pubblica, le infezioni. I laboratori erano sguarniti di materiali diagnostici come i tamponi, i magazzini vuoti senza le scorte di reagenti e il poco personale a disposizione per effettuare i test. Eppure esiste un piano nazionale per contrastare le pandemie del 2016 che non è stato applicato. L’Italia è al cinquantunesimo posto per la capacità di risposta alle pandemie e la sanità pubblica si occupa solo delle vaccinazioni anti influenzali. Qui chiamo in causa anche la componente medica che dovrebbe essere più presente e partecipe nei confronti della politica sanitaria, dimostrando la volontà di ribellarsi e di protestare per far capire al decisore politico quando prende dei provvedimenti in materia di salute, se li ritiene inadeguati».

In Lombardia la protesta dei medici si è fatta sentire con l’accusa rivolta alla gestione sanitaria del presidente Attilio Fontana e dell’assessore al welfare Giulio Gallera. I dirigenti medici delle 8 “Agenzie di tutela della salute” lombarde hanno criticato la mancata comunicazione all’inizio per effettuare i tamponi, il tracciamento, l’isolamento dei positivi e sulla quarantena. La mancata creazione delle zone rosse in provincia di Bergamo. Sono 171 i medici di base che hanno pagato con la loro vita a causa del coronavirus e il loro sacrificio non sarà riconosciuto: le assicurazioni private non verseranno nessun risarcimento non riconoscendo il contagio come infortunio sul lavoro. Luca Fusco presidente del Comitato “Noi denunceremo verità e giustizia per le vittime Covid-19” ha inviato una lettera al Fatto Quotidiano in cui scrive: «Non posso non sottolineare la profonda tristezza e amarezza provate: tristezza per il ricordo di mio padre e di tutti i defunti; amarezza per aver avvertito, ancora una volta, la lontananza e la sordità delle istituzioni, le uniche a cui è stato consentito di partecipare. Il protocollo non ha permesso che presenziassero alla cerimonia i parenti delle vittime; è stato demandato a me in veste di presidente del Comitato il compito di rappresentarli. Avevamo chiesto la presenza di un numero superiore in rappresentanza di 60mila iscritti al gruppo Facebook». Luca Fusco spiega nella sua accorata lettera densa di dolore che «ho chiarito agli organizzatori che non avrei in nessun modo condiviso alcuno spazio fisico con il presidente della Regione. Mi auguravo che il presidente (Fontana, ndr) potesse cogliere l’occasione per sentire il dolore di Bergamo, e speravo che, davanti al cimitero divenuto il simbolo di un’ecatombe, prendesse coscienza del nostro dolore chiedendo pubblicamente scusa a noi cittadini». Sulla pagina Facebook del presidente Fontana è leggibile un lungo post in cui si autoassolve completamente da tutte le accuse a lui rivolte e si dichiara sereno per come ha gestito l’emergenza sanitaria.

«La provincia di Trento nel 2019 ha previsto un piano di efficientamento che prevedeva 120 milioni di taglia sulla sanità e gli ospedali disponevano di pochi posti in terapia intensiva. Si prevedono 78 posti per non trovarsi più impreparati ma non si capisce come farli funzionare se manca il personale. L’emergenza sanitaria ha dimostrato quanto gli operatori sanitari si siano fatti in quattro per sopperire alle carenze – spiega ancora Marco Ioppi – e il piano di riorganizzazione con la promessa di ricevere i finanziamenti da parte del governo e con gli stanziamenti decisi dalla Comunità europea verrà attuato chissà quando. Oltre ad una scelta straordinaria è venuta a mancare anche una visione strategica. È stata depotenziata la medicina del territorio a causa di una concezione frutto di una pochezza da parte della politica sanitaria suddivisa in tante piccole realtà. Nelle lettere inviate alla Giunta provinciale si chiedeva un maggiore utilizzo di tamponi da effettuare al personale sanitario che poteva contagiarsi e diffondere il virus. Queste lettere sono state firmate anche dai presidenti di tutti gli ordini professionali sanitari come gli infermieri, i tecnici di laboratorio, gli psicologi, i farmacisti, i biologi.

Anche le associazioni dei malati hanno inviato un documento alla Consulta provinciale della salute, dove si chiede il tracciamento del virus e di farsi trovare pronti in autunno con la vaccinazione antinfluenzale. La componente sanitaria si rivela in sofferenza per una tragedia umana sul piano solidaristico etico comportamentale. Tutti gli operatori sanitari hanno cercato di dare sollievo ai malati che erano privati dei loro cari e non hanno potuto avere il loro conforto e concordare le cure con i loro famigliari. Si è persa l’occasione di fidelizzare gli operatori sanitari». L’articolo 32 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Nel frattempo l’OMS lancia l’allarme di una prossima pandemia che dovrebbe colpire in autunno: Ranieri Guerra (il rappresentante italiano nell’Organizzazione mondiale della sanità e membro del comitato tecnico scientifica del governo) ha dichiarato che «la seconda ondata di Covid-19 potrebbe essere peggiore di quella della febbre spagnola del 1919», insultando pesantemente il collega virologo Massimo Clementi dopo che quest’ultimo aveva criticato tale affermazione. Il consiglio di non creare falsi allarmismi arriva da un’autorevole esperto: Carlo Federico Perno professore ordinario di Microbiologia e virologia dell’Università di Milano e dirigente del Dipartimento di medicina di laboratorio dell‘Ospedale Niguarda: «Sul Covid-19 sento affermare dei pareri inesatti anche da parte degli esperti scientifici quando qualcuno lo paragona ad una semplice influenza e altri lo paragonano alla febbre spagnola. Non siamo ancora in grado di capire l’evoluzione del coronavirus e dobbiamo andare cauti con le previsioni».

RADIO3-SCIENZA-Carlo Federico Perno

fonte. www.articolo21.org

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Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella onora le vittime del coronavirus a Bergamo

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha partecipato nella serata di domenica 28 giugno alla commemorazione solenne per le vittime del coronavirus a Bergamo, dove al Cimitero monumentale è stata eseguita la Messa da Requiem di Gaetano Doninzetti eseguita dall’Orchestra e dal Coro del Doninzetti Opera Festival diretti da Riccardo Frizza, anticipata dalla lettura dell’Addio ai monti dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni da parte del direttore artistico del Festival Francesco Micheli. Il cast era composto da Eleonora Buratto (soprano), Annalisa Stroppa (mezzosoprano), Piero Pretti (tenore), Alex Esposito (basso), Federico Benetti (basso); maestro del Coro Fabio Tartari. Il concerto è stato trasmesso in diretta su Rai 1 e si può rivedere su Ray Play.

Solo a Bergamo e provincia le persono decedute per il Covid-19 sono state oltre seimila e lo stesso capo dello Stato nel suo intervento dopo aver deposto una corona ha sollecitato l’impegno di «riflettere seriamente sugli errori da evitare di ripetere. Qui l’Italia che ha sofferto e che è stata ferita e che ha pianto. La mia partecipazione vuole testimoniare la vicinanza della Repubblica ai cittadini di questa terra così duramente colpita. Bergamo, oggi, rappresenta l’intera Italia, il cuore della Repubblica». Nelle sue parole traspariva il monito di non limitarsi a ricordare le vittime ma «assumere piena consapevolezza di quel che è accaduto. Senza cedere alla tentazione illusoria di mettere tra parentesi questi mesi drammatici per riprendere come prima».

crediti foto Quirinale

Un intervento significativo, quello di Mattarella, a riprova della necessità di non smettere di interrogarsi: «su ciò che non ha funzionato, sulle carenze di sistema, sugli errori da evitare di ripetere». Dal piazzale antistante il Cimitero pochi mesi fa partivano i camion dell’Esercito Italiano con le bare che venivano inviate in altre città per essere cremate. Un luogo diventato simbolo di una tragedia che ha lasciato sgomenti chi vedeva le immagini in televisione. Mattarella ha voluto essere vicino alla popolazione di questa città ascoltando in piedi l’Inno di Mameli e con lui i 243 sindaci provenienti da tutta la provincia (eccetto il sindaco del Comune di Ambivere Silvano Donadoni che di professione è medico, in segno di protesta per la mancata gestione da parte della Regione Lombardia sia in fase di emergenza inizio pandemia che ora). Accanto al Presidente della Repubblica c’era anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e il presidente della Regione Attilio Fontana il quale sostiene ancora oggi di non aver commesso errori nella gestione sanitaria e di non ritenersi responsabile di quanto accaduto sia per la mancata decisione di istituire le zone rosse (nel bergamasco) e per i trasferimenti di malati nelle rsa di Milano e provincia.

crediti foto Quirinale

È in corso un’inchiesta della Procura della Repubblica di Bergamo con l’ipotesi di reato per epidemia colposa che si avvale della consulenza del direttore del laboratorio di Microbiologia e virologia dell’Università di Padova, Andrea Crisanti. La sua gestione in Veneto per contenere la diffusione del virus ha permesso di isolare i focolai e individuare i contagi sottoponendo la popolazione al test del tampone. L’esecuzione della Messa da Requiem a Bergamo è stata trasmesso in diretta anche dal sito del corriere.it dove gli italiani, ancora una volta, dimostrano di essere un popolo che non rinuncia nemmeno in un’occasione così solenne di insultare e scrivere nei commenti (visibili in concomitanza dell’esecuzione musicale) parole offensive rivolte a chiunque chiedesse rispetto per i defunti.

Ascoltare la musica e dover leggere (per dovere di cronaca) simili frasi è la riprova di quanto sia nocivo permettere di commentare liberamente senza che le testate giornalistiche del web impediscano di fatto tale scempio del rispetto per chi ha sofferto. Una buona notizia viene da Cremona dove il giovane Mattia Guarnieri di soli 18 anni che era stato ricoverato e intubato per aver contratto il coronavirus, dopo le dimissioni dall’ospedale ha potuto diplomarsi e conseguire la maturità. Mattia era stato dimesso lo scorso 16 aprile dopo la lunga degenza in terapia intensiva e prima di essere sedato aveva inviato un messaggio alla madre in cui prometteva di non abbandonarla.

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Di altra natura, invece, la notizia che arriva da Arezzo di un gatto che dopo aver morsicato la proprietaria è morto. Dalle analisi è risultato affetto dal Lyssavirus (virus isolato in una specie di pipistrello), ma in tutte le testate giornalistiche è riportata una dichiarazione pervenuta dalla Regione Toscana nella quale si spiega che il “Lyssavirus era stato rinvenuto una sola volta, a livello mondiale, in un pipistrello del Caucaso nel 2002, senza che ne fosse mai stata confermata la capacità di infettare animali domestici o l’uomo. Attualmente secondo il ministero della Salute non ci sono evidenze di trasmissione da animale a uomo”.

Tale affermazione non corrisponde alla realtà in quanto la scoperta del Lyssavirus risale al 1996:il lyssavirus dei pipistrelli australiano compare nel 1996 con due focolai sulla costa del Queensland (ABLV) e ha proprio questi animali come ospiti serbatoio”,(Spillover di David Quammen, edizioni Gli Adelphi, pag. 322, 326, 379. L’autore è una delle firme più qualificate e prestigiose del “National Geographic” e vincitore per tre volte del National Magazine Award. Nelle oltre 600 pagine documenta tutte le ricerche scientifiche che sono state condotte per analizzare il salto dei virus da animale all’uomo (chiamato spillover) , tra i quali vengono descritti anche quelli partiti dai pipistrelli.

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Coronavirus: un confronto con Francesco Bonella, della Clinica dell’Università di Essen

La nostra vita è stata sconvolta dalla comparsa del coronavirus Sars–CoV–2 proveniente dalla Cina e diffusosi in tutto il pianeta, con conseguenze sulla salute e sull’economia globale che sta mettendo a dura prova ogni nazione. Di fronte a questa pandemia è necessario saper informare con la massima trasparenza per evitare il rischio di creare allarmismi ingiustificati o, al contrario, negare le evidenze specie se a carattere medico scientifico. Abbiamo chiesto di fare chiarezza sulle conseguenze del Covid-19 a Francesco Bonella, un medico che lavora da 14 anni in Germania alla “Ruhrlandklinik, la Clinica pneumologica della facoltà di Medicina di Essen, in cui ricopre anche il ruolo di Professore associato di malattie respiratorie. La “Ruhrlandklinik” è il centro di riferimento tedesco per le patologie interstiziali e rare del polmone, ed è diretta dal professor Christian Taube.

Il dottor Bonella, originario di Trento, si è laureato in Medicina e chirurgia a Verona (detiene una specializzazione in Medicina interna a indirizzo pneumologico e reumatologico, oltre ad aver svolto esperienze cliniche nelle cliniche universitarie di Hannover e Berlino), e ora presta servizio a Essen, dove la sua esperienza è dimostrata anche dalle pubblicazioni scientifiche – oltre 250 – molte delle quali su riviste scientifiche ad elevato “impact factor” (impatto scientifico). Un medico specialista che lavora nella patria di ben tre Nobel per la medicina del calibro di Robert Koch, Paul Ehrlich e Harald zur Hausen (noto per le ricerche sul Papilloma virus Umano, Hpv). Per esaminare le cause della pandemia da Sars-CoV-2 – Severe acute respiratory syndrome–Coronavirus–2, un ceppo virale della specie Sars-related coronavirus/Sars-CoV, che fa parte del genere Betacoronavirus, scoperto intorno alla fine del 2019 – abbiamo chiesto a Bonella come valuta l’operato dei media e del motivo per cui l’argomento viene trattato spesso con un’enfasi eccessiva se non controproducente per informare correttamente il lettore.

«Noto come la stampa italiana ma anche la discussione scientifica a livello nazionale si sia concentrata in modo direi quasi ossessivo sul numero e le cause dei decessi, quando in realtà almeno il novanta per cento dei malati sopravvive. Una visione parziale riconducibile, in parte, alla tragedia delle prime settimane di esplosione della pandemia. In Germania vige sicuramente una maggiore neutralità nel dare le informazioni, rispettata dalle grandi testate giornalistiche dove si percepisce un minore schieramento di posizioni e più considerazione nei confronti delle informazioni ufficiali», ha detto Bonella.

Come viene informata l’opinione pubblica in Germania sull’andamento dei contagi?

«A differenza dell’Italia, dove viene emesso un bollettino giornaliero, qui in Germania, accanto alla comunicazione dei dati reali trasmessi al Robert Koch Institut (Rki), si valutano i coefficienti di trasmissione sull’arco dei sette giorni, in particolare il coefficiente R del 26 maggio si attestava a 0,70, con intervallo di previsione al 95 per cento di 0,59- 0,82 (fonte Rki). Ogni giorno, l’istituto Rki puntualizza il coefficiente che riflette la contagiosità di una, due settimane prima. Pertanto qui si tende a dare più importanza al trend sui 7 giorni che ci comunica una tendenza della contagiosità ottenuta con il metodo Nowcasting . In questo caso, il 26 maggio scorso il coefficiente R dei 7 giorni (7-Tage R Wert) si è attestato a 0,78, con intervallo 0,59-0,82: vuol dire che la situazione è stabile ma ancora vicina a 1. Questo coefficiente è preferibile perché livella le variazioni giornaliere indotte da ritardi o accelerazioni nella trasmissione dei dati dalla periferia al Rki».

All’inizio della pandemia la diffusione del virus non è stata contenuta, specie in alcune zone della Lombardia dove non è stata decretata la chiusura di ospedali e create le “zone rosse”, o come in Trentino, si è deciso in ritardo di chiudere gli impianti sciistici.

«Gli errori di sottovalutazione tipici della prima fase sono stati commessi un po’ ovunque. In Germania, per capire velocemente la dinamica della diffusione del Covid-19 sono stati somministrati dei questionari nel territorio dove è avvenuto il primo focolaio ad Heinsberg, vicino a Düsseldorf, di quasi duecento domande a persona per trovare delle risposte sulle modalità esatte di trasmissione e le situazioni a rischio (studio condotto dall’Università di Bonn). Un dato significativo ottenuto da questa ricerca a tappeto è rappresentato dal fatto che i primi infettati erano giovani sciatori presenti nella località austriaca di Ischgl, il principale focolaio da cui poi il virus ha raggiunto molti paesi del Nord Europa. Anche in Trentino si è verificata una situazione analoga, quando sono state lasciate aperte le piste da sci nelle valli, nonostante fosse già chiaro che il virus si stava espandendo».

Fino all’otto marzo scorso in Trentino le piste da sci sono rimaste aperte (come gli alberghi delle località turistiche) permettendo così un’affluenza record di sciatori provenienti da altre regioni, (chiuse solo il 10 marzo per ordine del ministro per gli affari regionali Francesco Boccia), a differenza della Provincia di Bolzano dove invece era stato emanato un provvedimento di chiusura anche su sollecitazione di molti albergatori. La presidente dell’Associazione nazionale degli esercenti funiviari, Valeria Ghezzi, aveva così commentato rispetto alla decisione del presidente della Provincia di Trento, Maurizio Fugatti di non bloccare gli impianti sciistici: «La neve è più forte del virus e ho sentito che il presidente della Giunta provinciale ci ha raccomandato di essere più attenti del solito. Lo rassicuro, già stiamo adottando misure severe. Siamo responsabili e consapevoli della straordinarietà e complessità della situazione. Stiamo cercando di evitare che nelle cabinovie entri un numero eccessivo di persone». Le immagini pubblicate nei giorni successivi hanno di fatto smentito le promesse e l’affollamento eccessivo sulle piste ha permesso il diffondersi del virus nelle valli trentine.

«Per quanto riguarda le cause di morte – prosegue il professor Bonella – si possono fare alcune interessanti considerazioni: il virus nel polmone, quando porta alla morte, lo fa causando sindromi iperacute, che sono principalmente la Sindrome del distress respiratorio acuto (Ards), il danno acuto del polmone (denominato in inglese “Acute lung injury-Ali”, una sorta di pre-Ards) e la temuta Afop, la polmonite organizzativa fibrosante acute fibrinous and organizing pneumonia gravata, anche nel caso del coronavirus, da una mortalità del 50-80 per cento Copin et, al Intensive Care Med. 2020. Nel caso della polmonite interstiziale da Covid-19, fra le cause di mortalità si possono trovare sicuramente anche i fattori tromboembolici, che portano all’esito fatale, come evidenziato nelle numerose autopsie eseguite nei centri di riferimento Covid. Detto ciò sono rimasto stupito dai ripetuti e talora bizzarri messaggi, circolati su “Whatsapp”, sugli esiti allarmanti delle autopsie in merito proprio a questi fatti tromboembolici. Ora, vorrei ricordare che la formazione di macro o micro trombi nei vasi del polmone, e in conseguenza di embolie, così come a livello sistemico (coagulazione intravascolare disseminata), sono complicazioni ben note in queste forme polmonari iperacute, che finiscono sempre in terapia intensiva. Anche qui, se ne sono sentite di tutti i colori, come se queste tromboembolie fossero conseguenza non della malattia acuta e altamente mortale in sé, ma del fatto che i medici non avessero somministrato anticoagulanti o antiaggreganti per prevenire tali fenomeni. Tutte opinioni avventate. Io sono sicuro che i colleghi italiani abbiano somministrato la terapia di profilassi antitrombotica per i pazienti ospedalizzati acuti e quindi allettati, come nel resto del mondo è stato fatto».

A Piacenza, il primario di oncologia Luigi Cavanna ha potuto dimostrare come le cure a domicilio, eseguite con efficacia all’insorgere dei primi sintomi, hanno potuto salvare 250 pazienti affetti da Covid-19. Il medico, insieme alla sua equipe medica, si è recato a casa dei malati dove ha applicato trattamenti farmacologici e terapie fino alla loro completa guarigione, evitando di fatto di aggravare sulle strutture sanitarie. Il metodo scelto dal primario se fosse stato adottato anche in altre città della Lombardia (come Bergamo, ad esempio), avrebbe evitato molti ricoveri ospedalieri in fase critica e terminale dove le terapie intensive non hanno potuto far fronte all’eccessivo numero di pazienti successivamente deceduti. Le disposizioni del ministero della Sanità inviate ai medici di base non prevedevano di fatto le cure a domicilio. In Germania al contrario la medicina generale è collegata a quella ospedaliera, e non risulta separata come in Italia.

«La medicina territoriale e la sua forza rappresentano sicuramente un punto focale nella gestione di questa pandemia. Mi sono chiesto più volte cosa si sarebbe potuto fare monitorando a casa molti più pazienti, e quindi impedendone l’invio in ospedale, e se i medici di base fossero stati dotati di saturimetro e nella condizione di fare anche i tamponi. Io sono stato chiamato a rivedere da osservatore esterno il processo decisionale attuato dai colleghi italiani in situazione di triage (i dati sono in pubblicazione) e confermo la difficile situazione in cui i sanitari si sono trovati a gestire questi pazienti: una sfida medica eccezionale nel cercare di curare migliaia di malati Covid-19 in poco tempo e senza una guida precisa. Anche la mancanza di strategie per la prevenzione del contagio come i percorsi separati per i pazienti Covid ha purtroppo inciso negativamente sull’andamento iniziale della gestione della pandemia».

In Italia quali sono stati i fattori aggravanti della diffusione del Sars-CoV-2?

«In Italia, come in altri Paesi, sono stati identificati più di venti fattori responsabili di aver aggravato la diffusione del virus e che possono essere correlati con la mortalità: tra questi sicuramente la densità di popolazione in alcune aree come la Lombardia, l’inquinamento da particolato atmosferico Pm 2.5 e Pm 10 (formato da una miscela complessa di particelle solide e liquide di sostanze organiche ed inorganiche sospese in aria, il maggior inquinante nelle aree urbane, ndr). Vorrei ricordare, proprio in merito alla questione dell’inquinamento atmosferico, che ci sono state di recente delle smentite solenni, da ultimo il caso di Francesca Dominici e collaboratori di Haward dove gli stessi autori hanno ritrattato i dati pubblicati un mese prima. Un altro possibile fattore è stato imputato a differenze nella cosiddetta distanza di sicurezza (intendo fra individui) nelle diverse popolazioni. In Germania o nei paesi del Nord Europa la distanza nei rapporti formali è un fatto abituale e quindi non è stato difficile per i cittadini rispettarlo durante il “lockdown” (ma le trasgressioni le abbiamo viste anche qui). I tagli alla sanità pubblica con la chiusura di molti ospedali periferici e l’indebolimento della medicina del territorio, avvenuto in Italia nell’ultimo decennio, credo abbiano contribuito in maniera significativa all’afflusso massiccio di pazienti già infetti nei pronti soccorsi (vedi la Lombardia, dove si è privilegiata la sanità privata. La decisione di trasferire malati meno gravi dai reparti ospedalieri alle Rsa ha permesso anche di diffondere il contagio all’interno delle strutture, ndr). In Germania il filtro è avvenuto prima, grazie alla robustissima rete di medicina del territorio.

Qui in Germania ad inizio del mese di febbraio le case di riposo sono state letteralmente chiuse al pubblico e di conseguenza i contagi tra gli anziani non si sono diffusi (tranne un paio di contenuti focolai avvenuti in Baviera e Nord-Reno Westfalia). Un vantaggio per questa nazione è stata poi l’età dei contagiati: gli sciatori che provenivano dall’Austria avevano un’età media di quarant’anni, cosi come le persone che avevano partecipato alle sfilate di Carnevale nelle città tedesche del territorio renano. La mortalità da Covid-19 nei quarantenni non è diversa fra Italia e Germania, attestandosi sotto l’1 per cento.

Continuando sulle differenze che ho potuto notare fra la gestione della pandemia nei due paesi, in Germania sono stati eseguiti da subito molti tamponi; questo pragmatismo tedesco ha permesso di ottenere dei risultati efficaci. Pur di mantenere alti i livelli di esecuzione dei tamponi nella popolazione e di garantire i risultati entro le 48 ore, sono stati reclutati anche i laboratori dei medici veterinari per analizzare i tamponi, visto che anch’essi sono dotati delle tecnologie per eseguire la Pcr (la reazione a catena della polimerasi, una tecnica di biologia molecolare che consente la moltiplicazione – amplificazione – di frammenti Dna dei quali si conoscono le sequenze): in fondo siamo pur sempre in presenza di una zoonosi (una malattia che viene trasmessa da animali all’uomo, ndr). Inoltre, da subito in Germania è partito il cosiddetto “censimento dei ventilatori”: ai primari di Terapia Intensiva è stato chiesto di fornire il numero preciso di apparecchiature per la ventilazione invasiva e semi-invasiva presenti nei loro reparti, e di rimettere in funzione i ventilatori datati, da tempo non più utilizzati. In pochissimi giorni, si è assistito ad un incremento dei posti letto in terapia intensiva poi successivamente messi a disposizione di altri paesi europei come la Francia, Spagna e l’Italia, visto che i due terzi erano rimasti vuoti.

Anche qui al Policlinico universitario di Essen sono arrivati una decina di malati gravi da Bergamo. Un’altra misura approntata in tempi rapidissimi è stata la creazione dei percorsi separati per i pazienti affetti da Covid-19 con corridoi e triage dedicati per evitare il contatto con altri malati e operatori sanitari (l’unico ospedale italiano a seguire questo metodo è stato l’ospedale Cotugno di Napoli dove non ci sono stati casi di medici e infermieri contagiati, ndr), questo a mio parere è stata una delle chiavi del successo nel contenimento dell’epidemia nella popolazione e delle infezioni fra il personale sanitario in Germania».

Un virus di origine animale da qui il termine zoonosi. Questo esclude ogni altra teoria o sospetto di contaminazione partita da un laboratorio in Cina?

«Qui si aprono le discussioni più accese. Anch’io mi sono fatto un’idea leggendo la letteratura specializzata. In questo virus sono state rilevate delle sequenze nel genoma che sono molto simili a quelle di Hiv-1 (Human immunodeficiency virus), specie di retrovirus che causano un’infezione cronica che provoca la sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids, ndr), mentre la presenza di queste sequenze genera dubbi in alcuni virologi sulla possibilità che siano frutto di un rimaneggiamento del virus. Bisogna però puntualizzare che tali sequenze non sono esclusivamente presenti in Covid-19 ma sono state rilevate anche in altri tipi virus.

Al di là delle paranoie, i dati scientifici per ora non possono avvallare le teorie complottistiche sul fatto che il virus sia stato creato in laboratorio allo scopo di distruggere l’umanità o parte di essa. Se vi è stato un rimaneggiamento di un coronavirus a scopi scientifici (per esempio il trasferimento di materiale genetico tra cellule per transfezione), fra cui lo sviluppo di un vaccino (magari proprio per l’Hiv), questo lo potranno stabilire solo le indagini approfondite di biologia molecolare. Restano poche certezze, una fra queste riguarda i reservoirs naturali di questo virus: lo zibetto dell’Himalaya e il pipistrello che ha fatto il salto di specie. Ci sono voluti mesi per conoscere meglio come si trasmette il coronavirus, principalmente per via aerea, parlando e tossendo, e dovremmo tenere ben presente che per l’Hiv e l’Ebola, dove ci sono voluti anni e tutto si è rivelato molto più complicato».

Altro aspetto rilevante è la richiesta di sperimentare in tempi brevi un vaccino.

«I tempi reali per condurre gli studi necessari al fine di giungere all’approvazione di un vaccino è di circa otto anni. Lo stesso vale per le fasi degli studi clinici di approvazione per un nuovo farmaco (in genere sono necessarie 3-4 fasi). Pertanto i toni trionfalistici e le conclusioni affrettate, sentite nelle ultime settimane, sono fuori luogo. Un iter più veloce per l’approvazione di nuove terapie è possibile grazie alla presenza di “fast tracks” (vie rapide) predisposte dalle Agenzie del farmaco, che permettono di velocizzare ma non di saltare le tappe, come già avviene nel campo delle malattie rare. Un iter frettoloso, invece, risulterebbe deleterio in quanto rischierebbe di far saltare i passaggi fondamentali e indispensabili come quello sulla valutazione dell’efficacia e della tossicità a lungo termine. Nel tempo che resta da ora fino alla somministrazione del vaccino, a scopo terapeutico o profilattico, su larghe fasce di popolazione, è bene continuare a mantenere le misure di protezione come la mascherina e il distanziamento per bloccare efficacemente la diffusione del contagio».

La cura della plasmaferesi in Italia continua a suscitare polemiche e il dibattito si fa sempre più acceso tra sostenitori e detrattori. Cosa ne pensa a proposito?

«Sinceramente questa polemica sulla plasmaferesi mi lascia sbigottito. La plasmaferesi è costituita dal prelievo del sangue intero, l’asportazione del plasma (porzione liquida del sangue) e la restituzione delle restanti componenti del sangue. La plasmaferesi produttiva viene usata per raccogliere plasma per la donazione, mentre quella terapeutica è una procedura abbastanza antica e validata nel trattamento di disordini immunitari. Buone evidenze ci sono anche per il trattamento della sepsi e della Ards, ben prima di questa pandemia. Qui la polemica nasce se il plasma dei pazienti Covid convalescenti, che contiene anticorpi neutralizzanti, può essere somministrato su larga scala per salvare i pazienti critici. Personalmente invito a leggere le line guida per l’identificazione dei donatori ideali e dei pazienti “candidati” della Food and drug administration (FDA) americana. Si noterà quanti criteri di inclusione ed esclusione ci siano per tutelare soprattutto la sicurezza dei pazienti. Uno degli aspetti tecnici più rilevanti ai fini pratici è che non esistono ancora test standarizzati su larga scala per rilevare la presenza di anticorpi neutralizzanti nel plasma. Quindi cosa andiamo a somministrare? Capite bene che la polemica a questo punto svanisce all’istante…»

In Italia si assiste ad un continuo sovrapporsi di pareri scientifici contrastanti tra di loro. Una sorta di gara tra virologi nel smentirsi a vicenda e ognuno ritiene di avere ragione più di un altro collega.

«Mi viene da rispondere citando il filosofo francese Michel Onfray il quale, in una intervista a Repubblica ha affermato: “Non si può passare impunemente, e così duramente, da una società pervasa dal rumore onnipresente, dall’iperattività incessante, dall’eccitazione permanente, dell’andare e venire continui, dall’esibizionismo perpetuo al silenzio, alla calma, alla solitudine, all’isolamento, all’invisibilità senza che tutto ciò non implichi danni incalcolabili…”. Mi colpisce, e amo ripetere, il termine “esibizionismo perpetuo” che descrive bene un fenomeno presente nei media e nei social network, ovvero il proliferare di opinioni autoreferenziali e il sottrarsi all’autocritica. Se questo accade nella ricerca, che ha bisogno di tempo, piccoli passi e concentrazione, i danni posso essere irreparabili.

Le parole chiave da tenere presenti in questo momento sono: pragmatismo, pazienza, qualità della raccolta dei dati attraverso una coordinazione fra i centri e, ancora forse utopistico in Europa, fra i diversi paesi. L’umiltà è necessaria prima di trarre delle conclusioni affrettate che avranno poi ricadute possibili sulla salute pubblica, l’ordine sociale e anche l’economia di un paese. I dati devono essere comparati e valutati da revisori esterni e imparziali, sempre e comunque. Dopo lo tsunami di pubblicazioni e proclami (“pre print”) a cui abbiamo assistito in questi mesi, servono ora le cosiddette “metanalisi”, per arrivare a capire dove si trova la verità in questa miriade di dati. La sistematicità nella ricerca sul comportamento del coronavirus e le sue non ancora del tutto decifrabili conseguenze, pur pressati dalla richiesta di risposte veloci, è l’unica strada che ci porterà a vincere questa sfida».

(di Roberto Rinaldi; fonte: Articolo21; immagine di copertina: Pechristener, Wikipedia)

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La satira umoristica turca è di casa allo Studio d’arte Andromeda di Trento

La satira umoristica ha una patria d’eccellenza: la Turchia ma è di casa anche in Italia a Trento. Lo Studio d’arte Andromeda è un’associazione culturale opera in questa città da oltre quarant’anni e svolge un’intensa attività grafica in campo internazionale. In ambiti come la satira, illustrazione, pittura, grafica e fumetto. Organizza ogni anno una rassegna internazionale di satira e umorismo e a Trento sono arrivati artisti di fama internazionale: Zavrel, Reggiani, Thole, Negrin, Anna Castagnoli, Oscar Sabini, Ana Ventura, Svetlan Junacovic, Javier Zabala, la Scuola di disegno anatomico del Rizzoli di Bologna, tra i tanti che figurano nell’elenco. Tra le tante collaborazioni l’Andromeda mantiene da molto tempo anche un legame particolare con i disegnatori e illustratori della Turchia. Un gemellaggio che vale la pena approfondire vista la situazione in cui riversa questa nazione. Assunta Toti Buratti è una delle fondatrici dell’Associazione di cui è anche vicepresidente, dopo aver svolto la carriera di docente di materia in disegno dal vero presso l’Istituto statale d’arte Alessandro Vittoria di Trento. Sulla satira umoristica in Turchia e sul lavoro svolto negli anni per invitare i disegnatori di tutto il mondo a Trento, ci ha rilasciato un’intervista mentre l’attività artistica dell’Andromeda è sospesa a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

Assunta Toti Buratti, ‘Chi ha paura del lapis cattivo’

«La prima considerazione necessaria per parlare dell’importanza della cultura artistica nel settore della satira umoristica è quella di smettere di pensare come i turchi siano solo un popolo dedito al fumo: un banale luogo comune! In Turchia c’è una storia importante sulla satira e l’umorismo paragonabile a quello della Francia, mentre noi in Italia siamo rimasti indietro causato dalle conseguenze di vent’anni di censura durante il Fascismo che impediva ogni libera espressione. Quando iniziai a frequentare negli anni ‘70, il Salone Internazionale dell’Umorismo di Bordighera, (è stato uno dei principali festival dedicati al disegno umoristico organizzati in Europa, fondato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale da Cesare Perfetto, ndr) partecipavano disegnatori come Raymond Penet (l’ideatore dei celebri“fidanzatini”) e Nehar Tüblek, uno dei disegnatori turchi più conosciuti , vincitore di numerosi premi anche in Italia, come quello di Bordighera e alla Biennale internazionale dell’umorismo d’arte di Tolentino. Con il tempo ho capito bene la realtà della Turchia in cui si poteva svolgere un’intensa attività satirica a cui veniva dato ampio spazio sui giornali – spiega la disegnatrice – , cosa che da noi in Italia non ci sognavamo nemmeno.

Nehar Tüblek

Negli anni a seguire mi hanno invitata a far parte della giuria che esaminava i partecipanti alla rassegna internazionale di Istanbul. Sono una delle quattro artiste negli anni ‘80 che disegnavano satira umoristica in Italia. Ad Istanbul partecipavano illustratori da tutto il mondo e venivamo ospitati in un palazzo storico dove un tempo era l’harem delle vedove del sultano, poi trasformato in un centro di calcografia per i stampatori. Qui ci siamo riuniti per una settimana con il compito di selezionare le opere umoristiche e satiriche. In Turchia in passato i disegnatori venivano trattati con riverenza e considerati dei personaggi molto amati e rispettati, alla pari degli scrittori». Visionare le tante illustrazioni e vignette realizzate dagli artisti ed esposte all’Andromeda di Trento fa capire come questa forma artistica sia fondamentale per l’esercizio e la libertà di pensiero in democrazia.

Nehar Tüblek

«Sono tornata una seconda volta in Turchia – prosegue Assunta Toti Buratti – per la rassegna internazionale di Istanbul il cui presidente della giuria era Metin Peker. Un giorno siamo stati invitati a visitare una redazione di un giornale ed io avevo in mano un piccolo libro d’illustrazione dal titolo “Sorridere piano”; lo vede un giornalista e avvicinandosi mi disse: “Sorridere piano, disegnare forte”». Scrive Fazila Mat in un interessante e approfondito articolo pubblicato sul sito www.balcanicaucaso.org dal titolo “Fare satira politica e religiosa in Turchia. La forza della tradizione umoristica (…)”: «le riviste d’umorismo sono un prodotto e anche un riflesso delle molteplici realtà contraddittorie che coesistono in Turchia e che, secondo alcuni umoristi, rappresentano la fonte dalla quale attingere il sorriso. La stampa satirico-umoristica a Costantinopoli risale alla seconda metà del XIX secolo. Le riviste del periodo, ispirate nei disegni ai coevi francesi e inglesi, oltre a segnare il passaggio da una cultura umoristica orale a quella su carta stampata, diedero anche voce alle preoccupazioni politiche, morali e religiose della società multietnica ottomana».

Tornando ai giorni nostri la disegnatrice dell’Andromeda ci racconta anche dell’incontro con uno degli artisti turchi più celebri: Metin Peker: «Ricordo quando durante una riunione di disegnatori Peker mi abbracciò con forza. Aveva fatto tre anni di carcere a causa di un colpo di Stato avvenuto in precedenza e solo dopo la caduta del regime era stato liberato. Pubblicava sulla rivista Karikatür che tradotto in italiano significa caricatura e viene utilizzata per disegnare i visi delle persone, mentre nel resto del mondo questa espressione artistica è carica di significati. Ora prevale il cartoon inglese. Su un numero di Karikatür è stata pubblicata in copertina una mia vignetta. Un’altra rivista online importante è Fenamizah (pubblicata fino al 2017, ndr). Tra di noi disegnatori ci sentivamo spesso e ho ricevuto spesso l’invito da parte dei colleghi turchi.

Il clima satirico in Turchia è alimentato da diverse manifestazioni come quella della Biennale di Ankara; in una di queste edizioni hanno partecipato anche i giovani del nostro laboratorio dell’Andromeda invitati in rappresentanza dell’Italia. A Smirne, nel centro storico, c’è il Museo dell’umorismo e della satira dei popoli del Mediterraneo dove io sono stata invitata in rappresentanza dell’Italia. Qui ho conosciuto il direttore del Museo, Eray Özbek, invitato poi a Trento dove è stato premiato come migliore disegnatore nella nostra rassegna, uno dei giurati alla rassegna internazionale di Bodrum sostenuta da un mecenate come Aidin Dogan (nel 2018 il Sole 24 Ore pubblicò un articolo in cui veniva riportata la notizia della vendita di alcuni dei suoi principali media d’opposizione in Turchia. Una situazione attuale in cui molti giornalisti sono stati arrestati e destano forte apprensione per le loro condizioni, ndr)».

La Turchia è stata anche la patria di Mustafa Kemal Atatürk, considerato come un eroe e padre nobile, eletto presidente della Repubblica e fautore della laicizzazione dello stato. Tra le sue prime iniziative intraprese la chiusura delle scuole religiose in favore di un sistema di istruzione pubblica centralizzato e l’abolizione dei tribunali religiosi. Un’altra personalità prestigiosa per la cultura turca è Nâzım Hikmet: poeta, drammaturgo e scrittore turco, è considerato uno dei più importanti poeti turchi dell’epoca moderna. Subì diverse condanne e fu incarcerato per 14 anni. I suoi libri sono stati tradotti in tutto il mondo mai nella sua lingua originale. Muore a Mosca nel 1963.

@Copyright Bertani editore 1988 Nuova editrice Verona – Studio d’Arte Andromeda

Assunta Toti Buratti cita anche la rassegna umoristica di Istanbul più quotata al mondo: «Vengono assegnati ventimila euro di premio da destinare al vincitore del concorso internazionale Nasreddin Hodja Cartoon Contest, aperto ai caricaturisti di tutto il mondo, ed il tema scelto ad ogni edizione biennale è in linea con le principali questioni del mondo più uno fisso, quello della situazione delle donne. Un mecenate finanzia le scuole per bambine orfane e un laboratorio fatto da non disegnatori. In Turchia c’è lo sforzo per emancipare le donne. La satira serve anche a scopi educativi».

L’Andromeda nel 1988 ha realizzato una rassegna di grafica umoristica dal titolo “Chi ha paura del lapis cattivo” dove sono state esposte opere di Marta Anderle, Giovanna Avancini, Giorgio Bertani, Cetrioli Salsa e Fantasia, Giuseppe Marchi, Carlo Martinelli, Rudi Patauner, Luigi Penasa, Giorgio Masera, Umberto Rigotti, Assunta Toti Buratti,Paolo Vitti, e con l’adesione di Aldo Bortolotti, Vauro Senesi, Vauro Senesi, Leonardo Cemak.

Rudi Patauner, ‘Chi ha paura del lapis cattivo’

Lassociazione è composta da Giulia Pedrotti che ricopre la carica di presidente, Assunta Toti Buratti è la vicepresidente, i consiglieri sono Lorenza Sebastiani, Romano Oss, Umberto Rigotti, Luigi Penasa, Alessandro Alfonsi, Nadezhda Simeonova

(Fonte: Articolo21; autore: Roberto Rinaldi; in apertura foto di Umberto Rigotti ‘Chi ha paura del lapis cattivo’ – Studio d’Arte Andromeda Trento 1988)

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Patrick Rina (Orf): ‘Il giornalismo educatore civico’

Patrick Rina è un giornalista della radiotelevisione pubblica austriaca ORF (Österreichischer Rundfunk) e lavora nella redazione di Bolzano. Nato a Merano nel 1987 è figlio di un uomo originario della Sicilia (il padre è di Castelvetrano, in provincia di Trapani) e di una donna di lingua tedesca altoatesina/sudtirolese (la madre è nata a Glorenza – Val Venosta, in provincia di Bolzano). Giornalista professionista ha superato l’esame a Roma nel 2013 e conosce bene la realtà dell’Alto Adige, sia come nativo ma anche per la sua professione, che lo porta ad osservare con un occhio di riguardo (lavorando per un’emittente estera ma sul suolo italiano), le dinamiche politiche, sociali e culturali di una terra ricca ma anche contraddittoria per molti aspetti. Bilingue perfetto, è un collega esperto e sensibile nel comunicare attraverso la televisione, grazie alla sua identità linguistica duplice.

Patrick Rina è iscritto al Sindacato giornalisti del Trentino Alto Adige e la conversazione si svolge rigorosamente al telefono per rispettare le norme dettate dall’emergenza sanitaria Covid – 19.

«Per noi giornalisti della televisione austriaca è importante appartenere anche al circuito sindacale della FNSI, una novità e una spinta propulsiva per lavorare bene. La nostra redazione non aveva un fiduciario, né tanto meno un comitato di redazione. Come televisione estera con giornalisti italiani ci si sente come delle figure mediatiche ibride. Io ho studiato però nelle scuole di lingua tedesca a Merano e facendo questo lavoro mi è stata data la possibilità di analizzare la situazione particolare dell’Alto Adige con una prospettiva da “forestiero”. Ritengo che la stampa italiana ma anche europea viva un momento particolarmente difficile, alla luce di come vengono date le notizie da alcuni media italiani ma anche di quelli tedeschi, in particolare i tabloid. C’è bisogno di maggiore pacatezza nel dare informazioni. Penso in particolare al tema del Covid-19 o coronavirus. È necessario possedere una maggiore ratio nel senso illuministico del termine perché osservo come molti giornali usino dei toni quasi propagandistici, urlati, come fosse una chiamata alle armi e questo mi preoccupa perché non è l’obiettivo del vero giornalismo e della stampa. La propaganda non può essere presente nel dare informazioni così delicate come nel caso della pandemia. Sembra una caccia alle streghe nei confronti dei politici e dei cosiddetti “untori”. Si cercano dei colpevoli. Consiglio di rileggere Réné Girard (antropologo, critico letterario e filosofo francese: la sua l’idea è che ogni cultura umana è basata sul sacrificio come via d’uscita dalla violenza mimetica, ndr), l’ideologo del capro espiatorio, ovvero l’invenzione del colpevole.

Al Museo diocesano di Trento (ora chiuso) nelle ultime settimane era proprio in corso la mostra dal titolo “L’invenzione del colpevole. Il ‘caso’ di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia” (a cura di Domenica Primerano con Domizio Cattoi, Lorenza Liandru, Valentina Perini e la collaborazione di Emanuele Curzel e Aldo Galli, ndr). Quando si manifestano sentimenti legati alla paura e all’odio questi si diffondono ovunque nella società e si cerca di trovare un solo colpevole (Girard definisce questo fenomeno come “capro espiatorio” che in antichità poteva essere o un animale o un essere umano e destinato ad essere colpevole per far si che una comunità si coalizzi senza dividersi, ndr)».

«L’ideologia della paura – prosegue Patrick Rinasi è manifestata anche attraverso la stampa germanica quando ha iniziato a criticare la sanità italiana accusandola di non essere preparata ad affrontare il coronavirus. Non dobbiamo costruire delle notizie frutto di stereotipi mentre osservo, al contrario, come molti articoli pubblicati – in Italia e nel mondo di lingua tedesca – abbiano un tono nazionalistico. Viene in mente la cosiddetta influenza spagnola, la quale tra il 1918 e il 1919 causò milioni di morti nel Mondo, una pandemia terribile. Non aveva un’origine spagnola ma fu solo la stampa spagnola a scriverne perché non era soggetta a censura, e da qui l’appellativo “spagnola”. Fu dato il nome di “spagnola” per via che solo in Spagna (nazione non coinvolta nella prima guerra mondiale) la stampa non era soggetta a censura (la diffusione del virus fu censurato dagli altri stati parlando di un’epidemia limitata alla Spagna, le cui cause  non trovano una spiegazione scientifica univoca, ndr). Anche noi operatori dell’informazione così attenti ora alla crisi globale siamo coinvolti in questo meccanismo ed è proprio ora che dobbiamo dimostrare come fare i giornalisti sia un’arte e una professione qualificata. Forse questa pandemia del coronavirus potrà far rinascere il giornalismo seriamente perché la stampa deve comunicare le informazioni accertate, dimostrabili scientificamente. Contano la verità dei fatti e la continenza verbale perché è arrivata l’ora della serietà! Ai miei amici continuo a fare queste domande: tu credi al video dell’amico mandato tramite i social o credi all’informazione dei professionisti? Credi a qualcuno che non ha controllato prima? Oppure ad un lavoratore del sapere responsabile che fa una verifica prima di pubblicare in prima pagina una notizia?»

Il giornalista ha studiato storia ad Innsbruck e letteratura tedesca a Venezia ma per motivi professionali ha lasciato, dedicandosi anima e corpo alla famiglia e al suo lavoro, del quale esprime un senso etico e deontologico fuori dal comune: «Ancora non lo posso dire se il giornalismo potrà rinascere, raccontando solo la verità dei fatti, la verità scientifica non falsata e semplificata (anche per il Covid-19 molta stampa sta dimostrando di non accertare la veridicità delle fonti e si azzarda in teorie e spiegazioni prive di fondamento, ndr). Io però voglio rivolgere un appello a tutti i colleghi di responsabilizzarsi sempre di più per diventare veri educatori civici! Bisogna narrare ai lettori e ai telespettatori i valori e i vantaggi della nostra democrazia liberale, dicendo di sì alla forza della collettività democratica, sì all’individuo, al cittadino che si sente parte della comunità, della civitas. La stampa deve ricordare sempre l’importanza della democrazia mentre le reti unificate – forse sono necessarie solo in questo momento (per la pandemia del coronavirus, ndr), ma il lievito democratico è rappresentato dal pluralismo come l’agorà, preludio della democrazia.

I giornalisti devono essere i “cani da guardia” della democrazia e vigilare su certi atteggiamenti, visto che siamo in una crisi. C’è la presenza delle forze della polizia, in molti paesi i servizi segreti hanno accesso a dati sensibili, come quelli dei telefoni cellulari. C’è anche l’utilizzo dei droni. Il monitoraggio degli spostamenti se limitato al periodo dell’emergenza sanitaria va bene, ma non deve essere prolungat0. Vorrei che ci fosse una discussione pacata su questi argomenti. Purtroppo la stampa si dimentica presto del passato ma una democrazia liberale, plurale è rappresentata dall’impegno di tutto il Parlamento italiano. Bisogna sempre dire no convintamente a tutte le derive e bramosie autoritarie come è accaduto in Ungheria con Orbàn che ha ottenuto i pieni poteri dal Parlamento della sua nazione. Non si può governare senza il parlamento e i giornalisti dovrebbero servirsi sempre della ratio e della propria intelligenza a proposito di informazione e disinformazione. Sarebbe utile leggere cosa ha scritto Kant a proposito di persuasione e convinzione nel divulgare un pensiero».

“Quando essa è valida per ognuno che soltanto possegga la ragione, allora il fondamento di essa è oggettivamente sufficiente, e allora la credenza si dice convinzione. Se essa ha il suo fondamento nella natura particolare del soggetto, è detta persuasione. La persuasione è una semplice apparenza, poiché il fondamento del giudizio che è unicamente nel soggetto, vien considerato come oggettivo. Una persuasione io posso tenermela per me, se pure io mi ci trovo bene, ma essa non può né deve, volersi rendere valida al di fuori di me” (brano tratto da Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

Rina non ha dubbi che il praticare il giornalismo con intelligenza sia fondamentale anche oggi per affrontare una situazione così sconvolgente per tutto il pianeta, colpito dalla pandemia: «Ci aiuterà anche in questa crisi nella descrizione della nostra società e penso a quella italiana come a  quella austriaca e germanica. Il nostro tempo assomiglia ai tipici sintomi da fine secolo con una società che sembra ballare su un vulcano e oscillare tra carnevale e quaresima. Si muove così tra positivismo idolatrato e una superstizione del pensiero magico. Mancano solo i flagellanti. Questa “coincidentia oppositorum” mi ricorda le parole del filosofo tedesco Theobald Ziegler che descrisse l’alba del Novecento come un’unione degli opposti. Ci sono tante similitudini con gli incipienti anni Venti del Duemila. Il compito dei giornalisti è ora più che mai quello di essere chiari e di usare un linguaggio possibilmente senza malintesi, fraintendimenti e sensazionalismi. Francis Bacon, filosofo e politico inglese vissuto tra il Cinquento e Seicento, si dedicò agli idòla fori ossia “della piazza”: molte parole non hanno un significato e non si riferiscono a nulla di reale e derivano da false teorie, da un linguaggio fallace ricco di malintesi ed  informazioni obnubilate. Sono sostanzialmente le fake news di oggi. Vedo nella nostra categoria il rischio di cadere in questo errore. Bisogna fare molta attenzione a non allontanarsi da una professionalità deontologicamente corretta. Ma ora anche il cittadino deve assumersi le sue responsabilità. Il cittadino solidale ha a cuore la comunità e non è un semplice esecutore di provvedimenti altrui. Io auspico che ci possano essere più cittadini figli dell’illuminismo. Ora ci sono dei doveri nei confronti della comunità, come quello di stare a casa. Consiglio di leggere il romanzo “La peste” di Albert Camus. Il libro parla sì di una tragedia, ma il messaggio principale ai posteri è quello della forza della solidarietà e della forza dell’avvedutezza».

(Roberto Rinaldi; fonte: Articolo 21)