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“L’atomo opaco del Male” che ha spezzato la vita di Willy

Giovanni Pascoli a seguito della scomparsa tragica della morte del padre, avvenuta il 10 agosto del 1986, in circostanze rimaste ignote, scrisse la poesia X Agosto dedicandola alla sua memoria. L’ultimo verso recita: «E tu, cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh! d’un pianto di stelle lo inondi quest’atomo opaco del Male!» Lo possiamo paragonare a ciò che è diventato il nostro paese? Un “atomo opaco del Male” dove la violenza si è insinuata nelle pieghe di una società sempre più a rischio di imbarbarimento. L’odio diffuso assume sempre più una forma esasperata che si manifesta non solo con atti di aggressività fisica, ma anche tramite il linguaggio delle parole scelte per scagliare pensieri di intolleranza, razzismo e supremazia nei confronti di chi è diverso da noi per colore della pelle, provenienza etnica, condizione sociale. Anche di fronte ad azioni criminali e delittuose sembra ergersi una difesa ad oltranza del colpevole e mai della vittima, come se il responsabile di un gesto o di un’azione lesiva nei confronti del prossimo, possa essere giustificato e non certo per legittima difesa.

Il Male che sovrasta ogni forma di pietà e di compassione si sta impossessando sempre più nell’esprimere sentimenti feroci dove è assente qualunque logica e razionalità nel saper discernere tra chi ha procurato violenza e chi, invece, l’ha subita. L’omicidio di Willy è l’ultimo caso di cronaca che l’Italia deve registrare quasi quotidianamente e appare come la plastica dimostrazione delle parole del poeta. Non a caso il Fatto Quotidiano di domenica 13 settembre, nel riportare la descrizione del suo funerale titola: Addio, piccolo Willy: il feretro della civiltà è accanto alla tua bara“. Un sinistro presagio diventa crudele realtà a cui sembriamo ormai tutti assuefatti e impotenti. Se lo chiede giustamente Enrico Fierro, l’estensore dell’articolo: «Ma la Politica, il mondo culturale e dell’informazione, l’opinione pubblica, hanno capito cosa siamo diventati? Hanno capito che nella bara invisibile abbiamo tumulato la pietà, la compassione, il rispetto della vita umana? Ci vorrebbe un poeta d’altri tempi per sbatterci in faccia quello che rifiutiamo di vedere. L’omologazione, l’obbligo di dover essere tutti uguali nell’illusione». La violenza comunicativa della politica non è esente da una responsabilità per lo meno morale.

Il giornalista sa a chi riferirsi: un poeta contemporaneo nel senso più vasto del termine, che non solo aveva capito ma ne ha pagato tragicamente le conseguenze per essere stato assassinato: «La cultura della sopraffazione, il linguaggio sbrigativo e violento. Un poeta c’era e una cinquantina d’anni fa seppe prevedere cosa saremmo diventati. Pier Paolo Pasolini lo uccisero il giorno dei morti nel 1975, una sera, ad Ostia. A calci , pugni, colpi in testa. Come Willy.» E Willy lo continuano ad uccidere con altrettanta violenza chi usa i social per scaricare o meglio “vomitare” su una vittima inerme e privata della sua vita con l’unica colpa di aver cercato di fermare altra violenza: «Spero che vengano liberati presto, non è giusto che siano in carcere per un delinquente che è arrivato qua sicuramente in modo illegale, anche se mi dispiace per sua madre che percepirà 35 euro in meno al giorno. RIP».

Il nome di chi si firma è di una donna ma dietro il suo profilo è facile che si celi un’identità diversa. Come possa arrivare una mente umana a trarre una conclusione del genere è praticamente impossibile e forse potrebbe diventare materia d’indagine della psicoanalisi nel tentare di trovare quell’”atomo opaco del Male” capace di danni irreversibili anche solo con il disprezzo della vita altrui. Inutile cercare altre spiegazioni come da giorni cercano di scoprire i mass media andando a rovistare nelle vite di chi ha commesso questo efferato delitto. E a chi, sempre sui social, diventati una discarica dei più abietti, aberranti commenti, applaude il martirio subito da Willy, chiamando “eroi” i sospettati aguzzini, solo per aver eliminato una “scimmia”; tocca profondamente nell’animo la risposta della madre Lucia Monteiro nel suo composto e riservato dolore (encomiabile la riservatezza e il rifiuto di rilasciare interviste da parte della famiglia del ragazzo nato in Italia ma di origini capoverdiane): «Mi hanno portato via mio figlio in modo orribile. Gli hanno fatto male, tanto male. Picchiato in maniera selvaggia. Avrà sofferto, chissà quanto. E lui che non poteva fare niente, a terra, indifeso. Lui aveva tanto da vivere. Non cerchiamo vendetta, vogliamo solo giustizia. Crediamo nei giudici e a loro chiediamo di farla. A nessuno, mai, deve capitare in futuro quello che è accaduto».

Gli odiatori seriali da tastiera abbiano la decenza di rispettare un dolore che ha procurato sgomento in tutta Italia e non solo, ammettendo una volta tanto che il loro odio è verso se stessi per l’incapacità di amare e di essere amati. Franco Floris direttore della rivista “Animazione sociale” nell’intervenire ad un convegno sulla qualità dei servizi alla persona spiegava come «(…) dentro la vita sociale ogni persona ha l’esigenza di riscoprire, lungo le fasi della vita, che legame ci sia tra l’essere io-me e l’essere io-noi. In altre parole, ogni persona ha da riscoprire qual è il cordone ombelicale che lo lega agli altri. Questo è un problema enorme, perché in questo momento ci sono intere fasce non solo di giovani, ma di adulti che non sanno più trovare quale sia quel legame che li unisce agli altri e che permette loro di sentirsi un noi collettivo, prima che un individuo singolo». Willy lo aveva trovato quel legame e qualcuno l’ha spezzato con inaudita ferocia.

«Siamo sconvolti per la morte di Willy, pestato a morte per aver difeso un amico contro la violenza. Il suo volto sorridente resterà come un’icona di amicizia e di solidarietà, che richiama i compiti educativi e formativi della scuola e dell’intera nostra comunità. In coerenza con questi valori occorre spiegare il massimo impegno per contrastare chi pratica una violenza vile e brutale, chi la predica o la eccita nei social». Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, discorso in occasione della cerimonia d’inaugurazione dell’anno scolastico 2020/21 alla scuola “Guido Negri”, di Vò Euganeo

Pubblicato sul sito www.articolo21.org

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Grandi, Cibio Trento: «Sperimentiamo vaccino su piattaforma innovativa»

Il Centro di Biologia Integrata (CIBIO) dell’Università di Trento opera nell’area delle biotecnologie per la salute umana e svolge il suo programma suddiviso in diversi laboratori di ricerca, guidati da ricercatori indipendenti in quattro diverse aree: Genomica e Biologia del Cancro; Biologia Cellulare e Molecolare; Microbiologia e Biologia Sintetica e Biologia dello Sviluppo e Neurobiologia. Dispone di piattaforme tecnologiche che supportano le attività di ricerca dei laboratori dove vengono eseguite tra le altre ricerche anche quella sul sequenziamento del DNA.

Guido Grandi direttore del CIBIO di Trento

Il direttore vicario del CIBIO è il dottor Guido Grandi laureato in scienze biologiche, professore ordinario presso il Dipartimento di Biologia, Computazionale e Integrata dell’Università di Trento dove insegna Immunologia e Vaccinologia. Fino al 2014 ha ricoperto l’incarico di Senior Project Leader per la multinazionale farmaceutica Novartis Vaccines. Autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche e inventore/co-inventore di oltre 450 brevetti internazionali, il professor Guido Grandi, insieme al professor Massimo Pizzato, virologo del Centro di Biologia Integrata, collabora con la Start-up BiOMViS srl di Siena (dove il figlio, Alberto Grandi è responsabile scientifico) su un progetto mirato a sviluppare un vaccino per il Coronavirus classificato come Sars-Cov2.

Professor Grandi ci descrive come state procedendo nella sperimentazione del vaccino?

«Ad oggi sono più di 150 i gruppi nel mondo che si stanno dedicando alla ricerca di un vaccino per il Sars-Cov-2 e 23 di questi vaccini in corso di sviluppo sono in fase sperimentale sull’uomo. Si parla di fase 1 quando la sperimentazione avviene su un campione limitato di volontari allo scopo di verificare la “sicurezza del vaccino” e al tempo stesso di testarne l’immunogenicità. Nel caso degli studi sull’uomo attualmente in corso per il vaccino contro SARS-CoV-2, per seguire l’immunogenicità si va ad osservare se nei volontari la vaccinazione induce la produzione di anticorpi capaci di riconoscere il virus e di bloccarne l’ingresso nelle cellule. La fase 2 prevede un campione di volontari più ampio dove il disegno dello studio è pensato per rinforzare i dati di sicurezza ma anche per generare i primi dati di efficacia. Quando si passa alla fase 3 la somministrazione sperimentale si espande a molti più soggetti per confermarne l’efficacia su un numero statisticamente più significativo. Se alla fine della fase 3 i dati sono in linea con le aspettative fissate, si passa alla registrazione. Normalmente gli studi clinici sull’uomo richiedono 6-8 anni e pertanto, aggiungendo a questi i tempi necessari alla ricerca/sviluppo e alla registrazione, ne consegue che mettere sul mercato un vaccino richiede dai 10 a 14 anni.

E’ evidente che queste tempistiche non sono compatibili con epidemie quali quella che stiamo sperimentando con SARS-CoV-2. In situazioni di questo genere, le strategie – prosegue il professor Grandi – prevedono di comprimere quanto più possibile i tempi necessari al completamento di ciascuna fase. A questo scopo le fasi 2 e 3 tendono ad essere programmate prima della chiusura della fase che le precede, ed attivarle con la massima rapidità, fatto salva la necessità di garantire elevati standard di sicurezza. Relativamente agli studi di efficacia (Fase 2 e Fase 3) questi normalmente prevedono il reclutamento di due gruppi di volontari, ad uno dei quali viene somministrato il vaccino mentre al secondo del placebo. Quindi si confronta il numero dei casi di infezione che si registrano in entrambi i gruppi in un certo periodo di tempo. E’ evidente che più elevata è l’incidenza dell’infezione minore è la dimensione dei gruppi necessaria ad ottenere dei dati statisticamente significativi. Nel caso di Covid-19, se è vero che il virus può avere un’incidenza molto alta, è altrettanto vero che il numero dei casi può cambiare velocemente nel tempo. Basti pensare all’Italia, paese che ha visto una crescita molto elevata del numero di casi nei mesi di Marzo-Aprile e dove ora le infezioni appaiono molto ridotte. In queste condizioni eseguire studi di efficacia può essere problematico. Per questo motivo, le autorità regolatorie potrebbero decidere di registrare un vaccino anche solo sulla base di “correlati di protezione”.

Nel caso di Covid-19, poiché la presenza di anticorpi capaci di neutralizzare l’ingresso del virus nelle cellule sembra essere sufficiente a impedire l’insorgere dell’infezione (almeno nelle sue manifestazioni più gravi) le autorità regolatorie potrebbero prendere in considerazione la registrazione di un vaccino sulla base del fatto che questi sia in grado di indurre nei vaccinati elevati titoli di anticorpi neutralizzanti, e che abbia dato buone risposte in modelli animali di infezione. Se questa procedura di registrazione avverrà o meno, dipenderà da un’attenta valutazione del rischio-benefico e dall’impatto che la non disponibilità di un vaccino può avere sulla salute pubblica e sul tessuto economico. Al momento, tutte le fasi 2/3 prevedono la valutazione dell’efficacia, con alcuni vaccini che si prefiggono di vedere almeno una riduzione significativa sulle forme severe della malattia, altri che invece mirano a bloccare l’infezione, indipendentemente dalle manifestazioni patologiche. Va infine ricordato un progetto innovativo sostenuto dal WHO (World Health Organization), denominato “Solidarity”.

Nell’ambito di questo progetto, WHO seleziona i vaccini che hanno effettuato la Fase I e coordina studi multi-centrici di Fase 2/3. Così facendo gli sviluppatori di vaccini che aderiscono al progetto, al di là di dover fornire le dosi di vaccino, non devono preoccuparsi dei costi e dell’organizzazione degli studi di efficacia. Al tempo testo il progetto consente di confrontare i vari vaccini tra loro e di selezionare quelli a maggiore potenziale. Infine, essendo lo studio multi-centrico a livello mondiale, sarà possibile stabilire l’efficacia dei vaccini anche su diversi background generico-ambientali delle popolazioni e su diverse varianti del virus circolante.

Relativamente al nostro vaccino in fase di sperimentazione pre-clinica, questi è basato su una piattaforma innovativa che prevede l’uso di vescicole di membrana (OMVs) di Escherichia coli, un batterio completamente innocuo per l’uomo. Tali vescicole sono state ingegnerizzate con porzioni di proteine virali. Quando abbiamo usato le vescicole per immunizzare animali di laboratorio (topi), è stato possibile dimostrare che i topi sviluppavano anticorpi capaci di neutralizzare l’ingresso del virus nelle cellule umane in cultura. La dimostrazione della capacità neutralizzante degli anticorpi è stata possibile grazie alla disponibilità di un saggio “in vitro” messo a punto nei laboratori del professor Pizzato.
Stiamo ora cercando dei partners finanziari/industriali interessati a portare il nostro candidato vaccino sino alle fasi cliniche. Considerando la semplicità e l’economicità del processo di produzione delle OMVs, riteniamo che il nostro vaccino possa rappresentare una valida alternativa, specialmente per i paesi in via di sviluppo».

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Anna Maria Andena: esempio virtuoso della sanità nel territorio di Piacenza. Tremila pazienti curati a domicilio

Oltre tremila pazienti curati a domicilio in tutta la provincia di Piacenza per l’emergenza da coronavirus sette giorni su sette dalle 8 di mattina alle 20 di sera: un esempio virtuoso di come la sanità emiliana sia stata capace di affrontare l’emergenza sanitaria da Sars-Cov-2. È accaduto a Piacenza dove l’Azienda Sanitaria riunisce in un solo assetto organizzativo sia l’ospedale che il territorio di tutta la provincia. I servizi territoriali sono stati attivati grazie all’efficienza dei sistemi integrati di gestione dell’informazione rivolte alla popolazione coordinando i dipartimenti in un’unica realtà operativa. La responsabile di questa gestione che ha permesso di contenere l’infezione da Covid-19 è la dottoressa Anna Maria Andena laureata in Medicina e Chirurgia che dirige il Distretto Azienda Sanitaria Locale di Piacenza (nel suo curriculum figurano anche incarichi svolti: direttore UOC Governo territoriale dell’Azienda sanitaria locale; Produzione cure primarie Asl; Referente aziendale MMG responsabile dei referenti e coordinatori NCP della provincia di Piacenza), ci spiega i risultati raggiunti in tutto il territorio piacentino.

«Il ministero della Sanità, ad inizio del mese di marzo, aveva dato indicazioni alle Regioni di istituire le “Unità speciale di continuità assistenziale (USCA), consapevoli della fase critica in cui ci trovavamo e coscienti della necessità che la medicina generale doveva essere messa nelle condizioni di gestire anche l’attività “ordinaria” della medicina di base, ci siamo subito attivati per garantire ai medici di proseguire senza l’interferenza della chiamata a domicilio. Il 16 marzo la Regione ci ha fornito le linee guida».

Piacenza veniva a trovarsi in una situazione di emergenza sanitaria drammatica con il pronto soccorso dell’ospedale in crisi per i continui ricoveri di malati affetti da polmoniti interstiziali. Era necessario alleggerire la pressione sui reparti ospedalieri.

«Dopo i primi dieci giorni dall’inizio dell’epidemia Piacenza, una provincia al confine, si è dimostrata una diga alla diffusione dell’infezione rispetto ad altre zone dell’Emilia Romagna. Nella nostra città non esiste un’azienda ospedaliera e una territoriale ma è unificata così ho avuto la facoltà di chiedere aiuto al Territorio. Noi abbiamo avuto mille decessi su 290mila abitanti. Era necessario intervenire per rilevare a domicilio il contagio ma anche gestire altre patologie altrimenti trascurate a causa del Covid-19. Grazie alla collaborazione di venti medici e infermieri abbiamo creato sei unità sanitarie da inviare sistematicamente in tutta la provincia dalle 8 di mattina alle 20 di sera, sette giorni su sette. Sono stati ben 3197 gli accessi complessivi. Il Dipartimento delle Cure Primarie ha interpellato i colleghi per selezionarli e creare le squadre di pronto intervento. Abbiamo iniziato gli addestramenti intensivi per chi si era candidato per fornire le necessarie competenze in diagnostica ecografica toracica. Il 16 marzo la Regione ci ha fornito le linee guida che ci hanno permesso di creare le USCA dotate di strumentazioni adatte alla valutazione clinica.

Va detto che il nostro pronto soccorso da anni esegue la diagnostica ecografica -toracica su tutti i pazienti al fine di discriminare le condizioni patologiche anche senza il tampone. Fondamentale si è rilevata la collaborazione – integrazione con i medici curanti di medicina generale per la continuità assistenziale (Piacenza è la sede didattica) che sono stati coinvolti nella programmazione e preparazione di come adottare i dispositivi di protezione individuale e la vestizione con un corso intensivo. Il 23 marzo tutti i pazienti erano stati segnalati dai medici di base e di famiglia e questo ha permesso di alleggerire l’attività delle cure ordinarie da sospetti Covid-19. Le segnalazioni valutavano le condizioni e la sintomatologia le co-morbilità croniche, le terapie in corso (croniche ed acute) che rendevano il paziente a rischio. A domicilio sono stati rilevati i parametri quali la saturazione, temperatura e frequenza cardiaca, eseguite le ecografie toraciche e gli elettrocardiogrammi per diagnosticare e confermare sospetti covid e prescrivere le terapie (prescrizione di farmaci come l’idrossiclorochina in un primo tempo ritirata dall’Aifa e dall’Oms, poi rintrodotta. Lancet aveva pubblicato uno studio che smentiva la sua efficacia contro il coronavirus, per poi ritirarlo. Somministrazione di antivirali, antibiotici, eparina, ndr) e i tamponi».

I risultati si sono visti: meno cure in ospedale e più cure a casa con controlli telefonici a distanza di pochi giorni dalla visita. I medici e gli infermieri di Piacenza si sono dimostrati dei professionisti capaci di lavorare in modo encomiabile, ci spiega la dottoressa Andena: «Si sono alternati senza mai cedere a demotivazioni o lamentandosi, capaci di visitare dalle 60 alle 90 persone al giorno spostandosi dalla pianura alla montagna, percorrendo centinaia di chilometri. È stato deciso di intervenire anche nelle strutture socio assistenziali per gli anziani e disabili, nelle rsa. Dal 23 marzo in poi gli accessi in pronto soccorso per polmoniti interstiziali sono drasticamente ridotti fino a quasi azzerarsi nel corso del mese di maggio.

Analoga attività è stata portata avanti in modo autonomo dal dottor Luigi Cavanna primario di oncoematologia, che insieme all’infermiere Gabriele Cremona, ha eseguito circa 270 accessi su pazienti prevalentemente oncologici per garantire cura e sorveglianza evitando l’accesso in ospedale di questa popolazione di pazienti che hanno una particolare fragilità».

Un merito del totale blocco e isolamento domiciliare della popolazione e della gestione sanitaria?

«Quello che è certo è che questo tipo di diagnostica spinta non è eseguita in nessun’altra parte d’Italia. Il controllo telefonico, l’ossigenoterapia a domicilio, la quotidiana registrazione sui pazienti, l’ossigeno periferico auto misurato, hanno dato ottimi risultati. Ci deve insegnare per il futuro come affrontare il proseguo del tempo cuscinetto, di come dotarsi di strumenti, mezzi e personale e gestire un’emergenza straordinaria. Nel mese di gennaio né l’OMS né l’Istituto superiore di sanità aveva dichiarato l’allarme».

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Il presidente dell’Ordine dei Medici di Trento Marco Ioppi: “è mancata una visione strategica per il Covid-19”

Il dottor Marco Ioppi è il presidente dell’Ordine dei Medici di Trento e ha svolto la sua carriera, prima di andare in pensione, come medico ospedaliero specializzato in ostetricia e ginecologia e endocrinologia all’Ospedale Santa Chiara di Trento e all’Ospedale S. Maria del Carmine di Rovereto con le funzioni di direttore dell’Unità Operativa. La gestione dell’emergenza sanitaria, causata dall’infezione da Covid-19 in Trentino, lo ha profondamente amareggiato. Gli appelli rivolti dal suo Ordine alla Giunta provinciale sono rimasti tutti inascoltati. In Trentino si sono registrati 467 decessi a fronte dei 292 della Provincia di Bolzano ma il dato complessivo dei positivi (per la provincia di Trento) è stato ricalcolato quando ci si è accorti che ne mancavano quasi 400 ( l’errore sta nella comunicazione  da parte della Provincia di Trento alla Protezione Civile di Roma) e questo ha inciso negativamente sull’indice di trasmissibilità Rt (la misura della potenziale trasmissibilità della malattia legata alla situazione contingente che sta a significare la misura di quanto accade nel contesto. Il contenimento per ridurre il numero dei contagi.   analisi dei dati sulla diffusione del virus sars cov-2 FBK  

Nella classifica dell’indice Rt stimato il Trentino si poneva al terzo posto fra le regioni italiane con un valore di 0,77: un dato che era stato presentato il 23 maggio scorso a Roma durante il Report redatto dall’Istituto superiore di sanità in collaborazione con la Fondazione Bruno Kessler di Trento a cui era presente  Stefano Merler epidemiologo che lavora presso la FBK, il quale aveva dichiarato che «il corona virus circolava in Lombardia e in altre regioni come il Trentino ben prima del 20 febbraio e non escluderei anche che fosse presente ancor prima del 2020 per trasmissione asintomatica»

Il coronavirus è comparso in Italia già negli ultimi mesi del 2019?

Uno studio dell’Istituto superiore di sanità ha scoperto la presenza del Sars-Cov-2 nelle acque di scarico di Milano e Torino, analizzate su campioni prelevati in precedenza alla scoperta dell’infezione a fine febbraio 2020. Un’analisi retrospettiva simile è stata fatta anche in Spagna nelle acque reflue di Barcellona a metà gennaio dove sono state riscontrate tracce di rna di Sars-Cov2 e in Francia dove era stato diagnosticato il Covid-19 in un paziente a dicembre 2019. L’inquietante interrogativo si fa avanti dopo la denuncia di 110 polmoniti atipiche classificate con «agente non specificato» riscontrate all’Ospedale di Alzano Lombardo Pesenti – Fenaroli tra il mese di novembre dell’anno scorso e febbraio 2020.

Anche all’Ospedale di Piacenza era stato segnalato un aumento anomalo di polmoniti (vicino c’è Codogno dove era stato rilevato il primo caso ufficiale conclamato: il paziente 1, Mattia Maestri, ricoverato all’Ospedale di Codogno e diagnosticato da Annamaria Malara, anestesista che è stata insignita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella del titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica). Esiste anche uno studio condotto dall’Università di Milano che verrà pubblicato sul “Journal of Medical Virology” e inviato anche all’OMS, in cui verrebbe confermata la presenza dell’epidemia in Italia tra ottobre e novembre del 2019. diffusione del covid-19 in Lombardia

«Dall’inizio della comparsa del Sars Cov 2 nella nostra Provincia, come Ordine dei medici – ci spiega il dottor Ioppi – abbiamo inviato otto lettere protocollate al presidente della Giunta Maurizio Fugatti e all’assessore alla salute Stefania Segnana, con l’intento di segnalare situazioni da correggere, da migliorare, cosciente del dovere di essere il più oggettivi possibile e offrendo contributi che ci vengono dall’esperienza e dalla competenza. Quello che abbiamo visto è la superficialità delle scelte compiute per decisione da parte della Giunta provinciale nell’ affidarsi a persone fedeli allineate e non ad esperti competenti, le quali potevano mettere in evidenza delle situazioni scelte non funzionali e non idonee al benessere e alla salute della popolazione. La nostra Provincia è piccola e non è sottoposta ai flussi elevati come in Lombardia dove l’inquinamento è stato chiamato in causa per aver aggravato la diffusione del Covid-19 e la densità di popolazione così alta ha permesso al virus di circolare velocemente. Il Trentino è risultato terzo per mortalità dopo la Lombardia e il Piemonte. covid19 Trentino

Ci dobbiamo chiedere allora dove abbiamo sbagliato e sarebbe grave la decisione di archiviare quanto è accaduto dimenticando gli errori commessi. I decessi che abbiamo registrato nelle residenze socio assistenziali è un dato che pesa. Questo ci deve indurre a farci riflettere per creare una mentalità in grado di insegnare per il futuro a gestire diversamente. L’aver trattenuto gli ospiti affetti dal Covid-19 nelle strutture residenziali ha determinato molti decessi. I dati della diffusione del contagio sono stati analizzati insufficientemente e l’Ordine dei medici ha cercato di stimolare una massa critica utile a favorire una maggiore difesa e prevenzione anche per il domani nel caso dovessimo gestire una nuova emergenza.

Ad inizio del mese di marzo – prosegue Marco Ioppi – abbiamo segnalato la gravità di quanto accadeva nelle regioni limitrofe (Veneto e Lombardia dove erano state istituite già delle “zone rosse”) in considerazione del fatto che in Trentino si stava sottovalutando come se nulla potesse accadere e il Covid-19 non ci fosse. Chiedevamo altre misure restringenti avendo 15 giorni di vantaggio rispetto ad altre regioni».

Misure che all’inizio non sono state ritenute necessarie. Anche l’ex direttore generale dell’Azienda provinciale servizi sanitari, il dottor Paolo Bordon (dopo le sue dimissioni è stato nominato direttore dell’Azienda sanitaria di Bologna) aveva segnalato (in riferimento alla mancata chiusura degli impianti sciistici avvenuta solo dopo il 9 marzo per decisione del governo) che «i turisti e sciatori provenienti dalle regioni limitrofe come quella della Lombardia hanno contribuito a diffondere il contagio tra i residenti che lavoravano sulle piste da sci».

Nelle cinque zone sciistiche del Trentino in cui sono stati riscontrati maggiori contagi da Covid-19, l’infezione ha colpito una persona su quattro corrispondente al 23 per cento della popolazione (studio pubblicato dall’Istituto superiore di sanità in cui si evidenziano le percentuali di positività: “27,73 per cento a Canazei; 24,7 per cento a Campitello di Fassa; 23,61 per cento a Vermiglio; 20,97 per cento a Borgo Chiese, 17,81 per cento Pieve di Bono-Prezzo”

Intanto dalla vicina Austria arriva la notizia di un nuovo focolaio che si è diffuso a Lienz dove sono stati riscontrati 175 contagi tra la popolazione e 1400 sono le persone sottoposte alla quarantena. In Italia ad oggi si registrano dieci focolai anche se la situazione è contenuta per via che l’indice di contagio è sotto lo zero, eccetto per il Lazio salito a 1. I contagi sono avvenuti a Mondragone in Campania; a Palmi e Porto Empedocle in Sicilia; a Roma (Ospedale San Raffaele, Garbatella e in un istituto religioso); in provincia di Prato e Pistoia; a Bologna sono risultate 64 i casi positivi avvenuti nell’azienda Bartolini, di cui 47 sono dipendenti interni. A Bolzano è sotto osservazione in quarantena una famiglia di 11 persone; altri contagi si registrano nelle città di Como e Alessandria.  Vicenza dove un nuovo cluster (focolaio) ha riportato il Veneto al rischio elevato di 1,63 con 5 nuovi positivi e 89 persone in isolamento, questo perché un uomo tornato dalla Bosnia ha rifiutato il ricovero in ospedale dopo essere stato visitato e risultato positivo al tampone.  Le successive frequentazioni sociali hanno determinato un espandersi del contagio. «Una situazione preoccupante che se peggiorasse ulteriormente dovrà essere gestita con una nuova fase di chiusura – ha spiegato il virologo Andrea Crisanti – perché i contagi attuali non vanno sottovalutati».

Cosa sappiamo e cosa no di Covid-19?

«La pandemia ha messo in evidenza un sistema sanitario nazionale con delle fragilità evidenti! – aggiunge il presidente Ioppi – causa il risultato dei tagli sulle risorse destinate alla sanità, basti vedere come hanno fatto in Lombardia destinando i finanziamenti alla medicina privata, a differenza del Veneto che ha mantenuto maggiori investimenti su quella pubblica. L’organizzazione in questa regione, eccetto il policlinico universitario di Padova e Borgo Roma a Verona che sono amministrazioni a sé stanti, tutte le altre direzioni sanitarie sono unite: sia quelle ospedaliere che territoriali. Anche Trento un tempo aveva un solo direttore sanitario responsabile  ospedaliero  e per il territorio, scelta poi modificata per nominarne due. Il budget sulla sanità trentina considerato come una legge di spesa ha pesato sulla decisione di tagliare 300 posti tra i sanitari, riducendo il numero di medici e infermieri, oltre ad aver smantellato il laboratorio di virologia.

La medicina viene considerata una risposta ai bisogni individuali della persona e di fatto trascura temi come l’igiene pubblica, le infezioni. I laboratori erano sguarniti di materiali diagnostici come i tamponi, i magazzini vuoti senza le scorte di reagenti e il poco personale a disposizione per effettuare i test. Eppure esiste un piano nazionale per contrastare le pandemie del 2016 che non è stato applicato. L’Italia è al cinquantunesimo posto per la capacità di risposta alle pandemie e la sanità pubblica si occupa solo delle vaccinazioni anti influenzali. Qui chiamo in causa anche la componente medica che dovrebbe essere più presente e partecipe nei confronti della politica sanitaria, dimostrando la volontà di ribellarsi e di protestare per far capire al decisore politico quando prende dei provvedimenti in materia di salute, se li ritiene inadeguati».

In Lombardia la protesta dei medici si è fatta sentire con l’accusa rivolta alla gestione sanitaria del presidente Attilio Fontana e dell’assessore al welfare Giulio Gallera. I dirigenti medici delle 8 “Agenzie di tutela della salute” lombarde hanno criticato la mancata comunicazione all’inizio per effettuare i tamponi, il tracciamento, l’isolamento dei positivi e sulla quarantena. La mancata creazione delle zone rosse in provincia di Bergamo. Sono 171 i medici di base che hanno pagato con la loro vita a causa del coronavirus e il loro sacrificio non sarà riconosciuto: le assicurazioni private non verseranno nessun risarcimento non riconoscendo il contagio come infortunio sul lavoro. Luca Fusco presidente del Comitato “Noi denunceremo verità e giustizia per le vittime Covid-19” ha inviato una lettera al Fatto Quotidiano in cui scrive: «Non posso non sottolineare la profonda tristezza e amarezza provate: tristezza per il ricordo di mio padre e di tutti i defunti; amarezza per aver avvertito, ancora una volta, la lontananza e la sordità delle istituzioni, le uniche a cui è stato consentito di partecipare. Il protocollo non ha permesso che presenziassero alla cerimonia i parenti delle vittime; è stato demandato a me in veste di presidente del Comitato il compito di rappresentarli. Avevamo chiesto la presenza di un numero superiore in rappresentanza di 60mila iscritti al gruppo Facebook». Luca Fusco spiega nella sua accorata lettera densa di dolore che «ho chiarito agli organizzatori che non avrei in nessun modo condiviso alcuno spazio fisico con il presidente della Regione. Mi auguravo che il presidente (Fontana, ndr) potesse cogliere l’occasione per sentire il dolore di Bergamo, e speravo che, davanti al cimitero divenuto il simbolo di un’ecatombe, prendesse coscienza del nostro dolore chiedendo pubblicamente scusa a noi cittadini». Sulla pagina Facebook del presidente Fontana è leggibile un lungo post in cui si autoassolve completamente da tutte le accuse a lui rivolte e si dichiara sereno per come ha gestito l’emergenza sanitaria.

«La provincia di Trento nel 2019 ha previsto un piano di efficientamento che prevedeva 120 milioni di taglia sulla sanità e gli ospedali disponevano di pochi posti in terapia intensiva. Si prevedono 78 posti per non trovarsi più impreparati ma non si capisce come farli funzionare se manca il personale. L’emergenza sanitaria ha dimostrato quanto gli operatori sanitari si siano fatti in quattro per sopperire alle carenze – spiega ancora Marco Ioppi – e il piano di riorganizzazione con la promessa di ricevere i finanziamenti da parte del governo e con gli stanziamenti decisi dalla Comunità europea verrà attuato chissà quando. Oltre ad una scelta straordinaria è venuta a mancare anche una visione strategica. È stata depotenziata la medicina del territorio a causa di una concezione frutto di una pochezza da parte della politica sanitaria suddivisa in tante piccole realtà. Nelle lettere inviate alla Giunta provinciale si chiedeva un maggiore utilizzo di tamponi da effettuare al personale sanitario che poteva contagiarsi e diffondere il virus. Queste lettere sono state firmate anche dai presidenti di tutti gli ordini professionali sanitari come gli infermieri, i tecnici di laboratorio, gli psicologi, i farmacisti, i biologi.

Anche le associazioni dei malati hanno inviato un documento alla Consulta provinciale della salute, dove si chiede il tracciamento del virus e di farsi trovare pronti in autunno con la vaccinazione antinfluenzale. La componente sanitaria si rivela in sofferenza per una tragedia umana sul piano solidaristico etico comportamentale. Tutti gli operatori sanitari hanno cercato di dare sollievo ai malati che erano privati dei loro cari e non hanno potuto avere il loro conforto e concordare le cure con i loro famigliari. Si è persa l’occasione di fidelizzare gli operatori sanitari». L’articolo 32 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Nel frattempo l’OMS lancia l’allarme di una prossima pandemia che dovrebbe colpire in autunno: Ranieri Guerra (il rappresentante italiano nell’Organizzazione mondiale della sanità e membro del comitato tecnico scientifica del governo) ha dichiarato che «la seconda ondata di Covid-19 potrebbe essere peggiore di quella della febbre spagnola del 1919», insultando pesantemente il collega virologo Massimo Clementi dopo che quest’ultimo aveva criticato tale affermazione. Il consiglio di non creare falsi allarmismi arriva da un’autorevole esperto: Carlo Federico Perno professore ordinario di Microbiologia e virologia dell’Università di Milano e dirigente del Dipartimento di medicina di laboratorio dell‘Ospedale Niguarda: «Sul Covid-19 sento affermare dei pareri inesatti anche da parte degli esperti scientifici quando qualcuno lo paragona ad una semplice influenza e altri lo paragonano alla febbre spagnola. Non siamo ancora in grado di capire l’evoluzione del coronavirus e dobbiamo andare cauti con le previsioni».

RADIO3-SCIENZA-Carlo Federico Perno

fonte. www.articolo21.org

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Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella onora le vittime del coronavirus a Bergamo

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha partecipato nella serata di domenica 28 giugno alla commemorazione solenne per le vittime del coronavirus a Bergamo, dove al Cimitero monumentale è stata eseguita la Messa da Requiem di Gaetano Doninzetti eseguita dall’Orchestra e dal Coro del Doninzetti Opera Festival diretti da Riccardo Frizza, anticipata dalla lettura dell’Addio ai monti dai Promessi sposi di Alessandro Manzoni da parte del direttore artistico del Festival Francesco Micheli. Il cast era composto da Eleonora Buratto (soprano), Annalisa Stroppa (mezzosoprano), Piero Pretti (tenore), Alex Esposito (basso), Federico Benetti (basso); maestro del Coro Fabio Tartari. Il concerto è stato trasmesso in diretta su Rai 1 e si può rivedere su Ray Play.

Solo a Bergamo e provincia le persono decedute per il Covid-19 sono state oltre seimila e lo stesso capo dello Stato nel suo intervento dopo aver deposto una corona ha sollecitato l’impegno di «riflettere seriamente sugli errori da evitare di ripetere. Qui l’Italia che ha sofferto e che è stata ferita e che ha pianto. La mia partecipazione vuole testimoniare la vicinanza della Repubblica ai cittadini di questa terra così duramente colpita. Bergamo, oggi, rappresenta l’intera Italia, il cuore della Repubblica». Nelle sue parole traspariva il monito di non limitarsi a ricordare le vittime ma «assumere piena consapevolezza di quel che è accaduto. Senza cedere alla tentazione illusoria di mettere tra parentesi questi mesi drammatici per riprendere come prima».

crediti foto Quirinale

Un intervento significativo, quello di Mattarella, a riprova della necessità di non smettere di interrogarsi: «su ciò che non ha funzionato, sulle carenze di sistema, sugli errori da evitare di ripetere». Dal piazzale antistante il Cimitero pochi mesi fa partivano i camion dell’Esercito Italiano con le bare che venivano inviate in altre città per essere cremate. Un luogo diventato simbolo di una tragedia che ha lasciato sgomenti chi vedeva le immagini in televisione. Mattarella ha voluto essere vicino alla popolazione di questa città ascoltando in piedi l’Inno di Mameli e con lui i 243 sindaci provenienti da tutta la provincia (eccetto il sindaco del Comune di Ambivere Silvano Donadoni che di professione è medico, in segno di protesta per la mancata gestione da parte della Regione Lombardia sia in fase di emergenza inizio pandemia che ora). Accanto al Presidente della Repubblica c’era anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e il presidente della Regione Attilio Fontana il quale sostiene ancora oggi di non aver commesso errori nella gestione sanitaria e di non ritenersi responsabile di quanto accaduto sia per la mancata decisione di istituire le zone rosse (nel bergamasco) e per i trasferimenti di malati nelle rsa di Milano e provincia.

crediti foto Quirinale

È in corso un’inchiesta della Procura della Repubblica di Bergamo con l’ipotesi di reato per epidemia colposa che si avvale della consulenza del direttore del laboratorio di Microbiologia e virologia dell’Università di Padova, Andrea Crisanti. La sua gestione in Veneto per contenere la diffusione del virus ha permesso di isolare i focolai e individuare i contagi sottoponendo la popolazione al test del tampone. L’esecuzione della Messa da Requiem a Bergamo è stata trasmesso in diretta anche dal sito del corriere.it dove gli italiani, ancora una volta, dimostrano di essere un popolo che non rinuncia nemmeno in un’occasione così solenne di insultare e scrivere nei commenti (visibili in concomitanza dell’esecuzione musicale) parole offensive rivolte a chiunque chiedesse rispetto per i defunti.

Ascoltare la musica e dover leggere (per dovere di cronaca) simili frasi è la riprova di quanto sia nocivo permettere di commentare liberamente senza che le testate giornalistiche del web impediscano di fatto tale scempio del rispetto per chi ha sofferto. Una buona notizia viene da Cremona dove il giovane Mattia Guarnieri di soli 18 anni che era stato ricoverato e intubato per aver contratto il coronavirus, dopo le dimissioni dall’ospedale ha potuto diplomarsi e conseguire la maturità. Mattia era stato dimesso lo scorso 16 aprile dopo la lunga degenza in terapia intensiva e prima di essere sedato aveva inviato un messaggio alla madre in cui prometteva di non abbandonarla.

crediti foto Quirinale

Di altra natura, invece, la notizia che arriva da Arezzo di un gatto che dopo aver morsicato la proprietaria è morto. Dalle analisi è risultato affetto dal Lyssavirus (virus isolato in una specie di pipistrello), ma in tutte le testate giornalistiche è riportata una dichiarazione pervenuta dalla Regione Toscana nella quale si spiega che il “Lyssavirus era stato rinvenuto una sola volta, a livello mondiale, in un pipistrello del Caucaso nel 2002, senza che ne fosse mai stata confermata la capacità di infettare animali domestici o l’uomo. Attualmente secondo il ministero della Salute non ci sono evidenze di trasmissione da animale a uomo”.

Tale affermazione non corrisponde alla realtà in quanto la scoperta del Lyssavirus risale al 1996:il lyssavirus dei pipistrelli australiano compare nel 1996 con due focolai sulla costa del Queensland (ABLV) e ha proprio questi animali come ospiti serbatoio”,(Spillover di David Quammen, edizioni Gli Adelphi, pag. 322, 326, 379. L’autore è una delle firme più qualificate e prestigiose del “National Geographic” e vincitore per tre volte del National Magazine Award. Nelle oltre 600 pagine documenta tutte le ricerche scientifiche che sono state condotte per analizzare il salto dei virus da animale all’uomo (chiamato spillover) , tra i quali vengono descritti anche quelli partiti dai pipistrelli.

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Coronavirus: un confronto con Francesco Bonella, della Clinica dell’Università di Essen

La nostra vita è stata sconvolta dalla comparsa del coronavirus Sars–CoV–2 proveniente dalla Cina e diffusosi in tutto il pianeta, con conseguenze sulla salute e sull’economia globale che sta mettendo a dura prova ogni nazione. Di fronte a questa pandemia è necessario saper informare con la massima trasparenza per evitare il rischio di creare allarmismi ingiustificati o, al contrario, negare le evidenze specie se a carattere medico scientifico. Abbiamo chiesto di fare chiarezza sulle conseguenze del Covid-19 a Francesco Bonella, un medico che lavora da 14 anni in Germania alla “Ruhrlandklinik, la Clinica pneumologica della facoltà di Medicina di Essen, in cui ricopre anche il ruolo di Professore associato di malattie respiratorie. La “Ruhrlandklinik” è il centro di riferimento tedesco per le patologie interstiziali e rare del polmone, ed è diretta dal professor Christian Taube.

Il dottor Bonella, originario di Trento, si è laureato in Medicina e chirurgia a Verona (detiene una specializzazione in Medicina interna a indirizzo pneumologico e reumatologico, oltre ad aver svolto esperienze cliniche nelle cliniche universitarie di Hannover e Berlino), e ora presta servizio a Essen, dove la sua esperienza è dimostrata anche dalle pubblicazioni scientifiche – oltre 250 – molte delle quali su riviste scientifiche ad elevato “impact factor” (impatto scientifico). Un medico specialista che lavora nella patria di ben tre Nobel per la medicina del calibro di Robert Koch, Paul Ehrlich e Harald zur Hausen (noto per le ricerche sul Papilloma virus Umano, Hpv). Per esaminare le cause della pandemia da Sars-CoV-2 – Severe acute respiratory syndrome–Coronavirus–2, un ceppo virale della specie Sars-related coronavirus/Sars-CoV, che fa parte del genere Betacoronavirus, scoperto intorno alla fine del 2019 – abbiamo chiesto a Bonella come valuta l’operato dei media e del motivo per cui l’argomento viene trattato spesso con un’enfasi eccessiva se non controproducente per informare correttamente il lettore.

«Noto come la stampa italiana ma anche la discussione scientifica a livello nazionale si sia concentrata in modo direi quasi ossessivo sul numero e le cause dei decessi, quando in realtà almeno il novanta per cento dei malati sopravvive. Una visione parziale riconducibile, in parte, alla tragedia delle prime settimane di esplosione della pandemia. In Germania vige sicuramente una maggiore neutralità nel dare le informazioni, rispettata dalle grandi testate giornalistiche dove si percepisce un minore schieramento di posizioni e più considerazione nei confronti delle informazioni ufficiali», ha detto Bonella.

Come viene informata l’opinione pubblica in Germania sull’andamento dei contagi?

«A differenza dell’Italia, dove viene emesso un bollettino giornaliero, qui in Germania, accanto alla comunicazione dei dati reali trasmessi al Robert Koch Institut (Rki), si valutano i coefficienti di trasmissione sull’arco dei sette giorni, in particolare il coefficiente R del 26 maggio si attestava a 0,70, con intervallo di previsione al 95 per cento di 0,59- 0,82 (fonte Rki). Ogni giorno, l’istituto Rki puntualizza il coefficiente che riflette la contagiosità di una, due settimane prima. Pertanto qui si tende a dare più importanza al trend sui 7 giorni che ci comunica una tendenza della contagiosità ottenuta con il metodo Nowcasting . In questo caso, il 26 maggio scorso il coefficiente R dei 7 giorni (7-Tage R Wert) si è attestato a 0,78, con intervallo 0,59-0,82: vuol dire che la situazione è stabile ma ancora vicina a 1. Questo coefficiente è preferibile perché livella le variazioni giornaliere indotte da ritardi o accelerazioni nella trasmissione dei dati dalla periferia al Rki».

All’inizio della pandemia la diffusione del virus non è stata contenuta, specie in alcune zone della Lombardia dove non è stata decretata la chiusura di ospedali e create le “zone rosse”, o come in Trentino, si è deciso in ritardo di chiudere gli impianti sciistici.

«Gli errori di sottovalutazione tipici della prima fase sono stati commessi un po’ ovunque. In Germania, per capire velocemente la dinamica della diffusione del Covid-19 sono stati somministrati dei questionari nel territorio dove è avvenuto il primo focolaio ad Heinsberg, vicino a Düsseldorf, di quasi duecento domande a persona per trovare delle risposte sulle modalità esatte di trasmissione e le situazioni a rischio (studio condotto dall’Università di Bonn). Un dato significativo ottenuto da questa ricerca a tappeto è rappresentato dal fatto che i primi infettati erano giovani sciatori presenti nella località austriaca di Ischgl, il principale focolaio da cui poi il virus ha raggiunto molti paesi del Nord Europa. Anche in Trentino si è verificata una situazione analoga, quando sono state lasciate aperte le piste da sci nelle valli, nonostante fosse già chiaro che il virus si stava espandendo».

Fino all’otto marzo scorso in Trentino le piste da sci sono rimaste aperte (come gli alberghi delle località turistiche) permettendo così un’affluenza record di sciatori provenienti da altre regioni, (chiuse solo il 10 marzo per ordine del ministro per gli affari regionali Francesco Boccia), a differenza della Provincia di Bolzano dove invece era stato emanato un provvedimento di chiusura anche su sollecitazione di molti albergatori. La presidente dell’Associazione nazionale degli esercenti funiviari, Valeria Ghezzi, aveva così commentato rispetto alla decisione del presidente della Provincia di Trento, Maurizio Fugatti di non bloccare gli impianti sciistici: «La neve è più forte del virus e ho sentito che il presidente della Giunta provinciale ci ha raccomandato di essere più attenti del solito. Lo rassicuro, già stiamo adottando misure severe. Siamo responsabili e consapevoli della straordinarietà e complessità della situazione. Stiamo cercando di evitare che nelle cabinovie entri un numero eccessivo di persone». Le immagini pubblicate nei giorni successivi hanno di fatto smentito le promesse e l’affollamento eccessivo sulle piste ha permesso il diffondersi del virus nelle valli trentine.

«Per quanto riguarda le cause di morte – prosegue il professor Bonella – si possono fare alcune interessanti considerazioni: il virus nel polmone, quando porta alla morte, lo fa causando sindromi iperacute, che sono principalmente la Sindrome del distress respiratorio acuto (Ards), il danno acuto del polmone (denominato in inglese “Acute lung injury-Ali”, una sorta di pre-Ards) e la temuta Afop, la polmonite organizzativa fibrosante acute fibrinous and organizing pneumonia gravata, anche nel caso del coronavirus, da una mortalità del 50-80 per cento Copin et, al Intensive Care Med. 2020. Nel caso della polmonite interstiziale da Covid-19, fra le cause di mortalità si possono trovare sicuramente anche i fattori tromboembolici, che portano all’esito fatale, come evidenziato nelle numerose autopsie eseguite nei centri di riferimento Covid. Detto ciò sono rimasto stupito dai ripetuti e talora bizzarri messaggi, circolati su “Whatsapp”, sugli esiti allarmanti delle autopsie in merito proprio a questi fatti tromboembolici. Ora, vorrei ricordare che la formazione di macro o micro trombi nei vasi del polmone, e in conseguenza di embolie, così come a livello sistemico (coagulazione intravascolare disseminata), sono complicazioni ben note in queste forme polmonari iperacute, che finiscono sempre in terapia intensiva. Anche qui, se ne sono sentite di tutti i colori, come se queste tromboembolie fossero conseguenza non della malattia acuta e altamente mortale in sé, ma del fatto che i medici non avessero somministrato anticoagulanti o antiaggreganti per prevenire tali fenomeni. Tutte opinioni avventate. Io sono sicuro che i colleghi italiani abbiano somministrato la terapia di profilassi antitrombotica per i pazienti ospedalizzati acuti e quindi allettati, come nel resto del mondo è stato fatto».

A Piacenza, il primario di oncologia Luigi Cavanna ha potuto dimostrare come le cure a domicilio, eseguite con efficacia all’insorgere dei primi sintomi, hanno potuto salvare 250 pazienti affetti da Covid-19. Il medico, insieme alla sua equipe medica, si è recato a casa dei malati dove ha applicato trattamenti farmacologici e terapie fino alla loro completa guarigione, evitando di fatto di aggravare sulle strutture sanitarie. Il metodo scelto dal primario se fosse stato adottato anche in altre città della Lombardia (come Bergamo, ad esempio), avrebbe evitato molti ricoveri ospedalieri in fase critica e terminale dove le terapie intensive non hanno potuto far fronte all’eccessivo numero di pazienti successivamente deceduti. Le disposizioni del ministero della Sanità inviate ai medici di base non prevedevano di fatto le cure a domicilio. In Germania al contrario la medicina generale è collegata a quella ospedaliera, e non risulta separata come in Italia.

«La medicina territoriale e la sua forza rappresentano sicuramente un punto focale nella gestione di questa pandemia. Mi sono chiesto più volte cosa si sarebbe potuto fare monitorando a casa molti più pazienti, e quindi impedendone l’invio in ospedale, e se i medici di base fossero stati dotati di saturimetro e nella condizione di fare anche i tamponi. Io sono stato chiamato a rivedere da osservatore esterno il processo decisionale attuato dai colleghi italiani in situazione di triage (i dati sono in pubblicazione) e confermo la difficile situazione in cui i sanitari si sono trovati a gestire questi pazienti: una sfida medica eccezionale nel cercare di curare migliaia di malati Covid-19 in poco tempo e senza una guida precisa. Anche la mancanza di strategie per la prevenzione del contagio come i percorsi separati per i pazienti Covid ha purtroppo inciso negativamente sull’andamento iniziale della gestione della pandemia».

In Italia quali sono stati i fattori aggravanti della diffusione del Sars-CoV-2?

«In Italia, come in altri Paesi, sono stati identificati più di venti fattori responsabili di aver aggravato la diffusione del virus e che possono essere correlati con la mortalità: tra questi sicuramente la densità di popolazione in alcune aree come la Lombardia, l’inquinamento da particolato atmosferico Pm 2.5 e Pm 10 (formato da una miscela complessa di particelle solide e liquide di sostanze organiche ed inorganiche sospese in aria, il maggior inquinante nelle aree urbane, ndr). Vorrei ricordare, proprio in merito alla questione dell’inquinamento atmosferico, che ci sono state di recente delle smentite solenni, da ultimo il caso di Francesca Dominici e collaboratori di Haward dove gli stessi autori hanno ritrattato i dati pubblicati un mese prima. Un altro possibile fattore è stato imputato a differenze nella cosiddetta distanza di sicurezza (intendo fra individui) nelle diverse popolazioni. In Germania o nei paesi del Nord Europa la distanza nei rapporti formali è un fatto abituale e quindi non è stato difficile per i cittadini rispettarlo durante il “lockdown” (ma le trasgressioni le abbiamo viste anche qui). I tagli alla sanità pubblica con la chiusura di molti ospedali periferici e l’indebolimento della medicina del territorio, avvenuto in Italia nell’ultimo decennio, credo abbiano contribuito in maniera significativa all’afflusso massiccio di pazienti già infetti nei pronti soccorsi (vedi la Lombardia, dove si è privilegiata la sanità privata. La decisione di trasferire malati meno gravi dai reparti ospedalieri alle Rsa ha permesso anche di diffondere il contagio all’interno delle strutture, ndr). In Germania il filtro è avvenuto prima, grazie alla robustissima rete di medicina del territorio.

Qui in Germania ad inizio del mese di febbraio le case di riposo sono state letteralmente chiuse al pubblico e di conseguenza i contagi tra gli anziani non si sono diffusi (tranne un paio di contenuti focolai avvenuti in Baviera e Nord-Reno Westfalia). Un vantaggio per questa nazione è stata poi l’età dei contagiati: gli sciatori che provenivano dall’Austria avevano un’età media di quarant’anni, cosi come le persone che avevano partecipato alle sfilate di Carnevale nelle città tedesche del territorio renano. La mortalità da Covid-19 nei quarantenni non è diversa fra Italia e Germania, attestandosi sotto l’1 per cento.

Continuando sulle differenze che ho potuto notare fra la gestione della pandemia nei due paesi, in Germania sono stati eseguiti da subito molti tamponi; questo pragmatismo tedesco ha permesso di ottenere dei risultati efficaci. Pur di mantenere alti i livelli di esecuzione dei tamponi nella popolazione e di garantire i risultati entro le 48 ore, sono stati reclutati anche i laboratori dei medici veterinari per analizzare i tamponi, visto che anch’essi sono dotati delle tecnologie per eseguire la Pcr (la reazione a catena della polimerasi, una tecnica di biologia molecolare che consente la moltiplicazione – amplificazione – di frammenti Dna dei quali si conoscono le sequenze): in fondo siamo pur sempre in presenza di una zoonosi (una malattia che viene trasmessa da animali all’uomo, ndr). Inoltre, da subito in Germania è partito il cosiddetto “censimento dei ventilatori”: ai primari di Terapia Intensiva è stato chiesto di fornire il numero preciso di apparecchiature per la ventilazione invasiva e semi-invasiva presenti nei loro reparti, e di rimettere in funzione i ventilatori datati, da tempo non più utilizzati. In pochissimi giorni, si è assistito ad un incremento dei posti letto in terapia intensiva poi successivamente messi a disposizione di altri paesi europei come la Francia, Spagna e l’Italia, visto che i due terzi erano rimasti vuoti.

Anche qui al Policlinico universitario di Essen sono arrivati una decina di malati gravi da Bergamo. Un’altra misura approntata in tempi rapidissimi è stata la creazione dei percorsi separati per i pazienti affetti da Covid-19 con corridoi e triage dedicati per evitare il contatto con altri malati e operatori sanitari (l’unico ospedale italiano a seguire questo metodo è stato l’ospedale Cotugno di Napoli dove non ci sono stati casi di medici e infermieri contagiati, ndr), questo a mio parere è stata una delle chiavi del successo nel contenimento dell’epidemia nella popolazione e delle infezioni fra il personale sanitario in Germania».

Un virus di origine animale da qui il termine zoonosi. Questo esclude ogni altra teoria o sospetto di contaminazione partita da un laboratorio in Cina?

«Qui si aprono le discussioni più accese. Anch’io mi sono fatto un’idea leggendo la letteratura specializzata. In questo virus sono state rilevate delle sequenze nel genoma che sono molto simili a quelle di Hiv-1 (Human immunodeficiency virus), specie di retrovirus che causano un’infezione cronica che provoca la sindrome da immunodeficienza acquisita (Aids, ndr), mentre la presenza di queste sequenze genera dubbi in alcuni virologi sulla possibilità che siano frutto di un rimaneggiamento del virus. Bisogna però puntualizzare che tali sequenze non sono esclusivamente presenti in Covid-19 ma sono state rilevate anche in altri tipi virus.

Al di là delle paranoie, i dati scientifici per ora non possono avvallare le teorie complottistiche sul fatto che il virus sia stato creato in laboratorio allo scopo di distruggere l’umanità o parte di essa. Se vi è stato un rimaneggiamento di un coronavirus a scopi scientifici (per esempio il trasferimento di materiale genetico tra cellule per transfezione), fra cui lo sviluppo di un vaccino (magari proprio per l’Hiv), questo lo potranno stabilire solo le indagini approfondite di biologia molecolare. Restano poche certezze, una fra queste riguarda i reservoirs naturali di questo virus: lo zibetto dell’Himalaya e il pipistrello che ha fatto il salto di specie. Ci sono voluti mesi per conoscere meglio come si trasmette il coronavirus, principalmente per via aerea, parlando e tossendo, e dovremmo tenere ben presente che per l’Hiv e l’Ebola, dove ci sono voluti anni e tutto si è rivelato molto più complicato».

Altro aspetto rilevante è la richiesta di sperimentare in tempi brevi un vaccino.

«I tempi reali per condurre gli studi necessari al fine di giungere all’approvazione di un vaccino è di circa otto anni. Lo stesso vale per le fasi degli studi clinici di approvazione per un nuovo farmaco (in genere sono necessarie 3-4 fasi). Pertanto i toni trionfalistici e le conclusioni affrettate, sentite nelle ultime settimane, sono fuori luogo. Un iter più veloce per l’approvazione di nuove terapie è possibile grazie alla presenza di “fast tracks” (vie rapide) predisposte dalle Agenzie del farmaco, che permettono di velocizzare ma non di saltare le tappe, come già avviene nel campo delle malattie rare. Un iter frettoloso, invece, risulterebbe deleterio in quanto rischierebbe di far saltare i passaggi fondamentali e indispensabili come quello sulla valutazione dell’efficacia e della tossicità a lungo termine. Nel tempo che resta da ora fino alla somministrazione del vaccino, a scopo terapeutico o profilattico, su larghe fasce di popolazione, è bene continuare a mantenere le misure di protezione come la mascherina e il distanziamento per bloccare efficacemente la diffusione del contagio».

La cura della plasmaferesi in Italia continua a suscitare polemiche e il dibattito si fa sempre più acceso tra sostenitori e detrattori. Cosa ne pensa a proposito?

«Sinceramente questa polemica sulla plasmaferesi mi lascia sbigottito. La plasmaferesi è costituita dal prelievo del sangue intero, l’asportazione del plasma (porzione liquida del sangue) e la restituzione delle restanti componenti del sangue. La plasmaferesi produttiva viene usata per raccogliere plasma per la donazione, mentre quella terapeutica è una procedura abbastanza antica e validata nel trattamento di disordini immunitari. Buone evidenze ci sono anche per il trattamento della sepsi e della Ards, ben prima di questa pandemia. Qui la polemica nasce se il plasma dei pazienti Covid convalescenti, che contiene anticorpi neutralizzanti, può essere somministrato su larga scala per salvare i pazienti critici. Personalmente invito a leggere le line guida per l’identificazione dei donatori ideali e dei pazienti “candidati” della Food and drug administration (FDA) americana. Si noterà quanti criteri di inclusione ed esclusione ci siano per tutelare soprattutto la sicurezza dei pazienti. Uno degli aspetti tecnici più rilevanti ai fini pratici è che non esistono ancora test standarizzati su larga scala per rilevare la presenza di anticorpi neutralizzanti nel plasma. Quindi cosa andiamo a somministrare? Capite bene che la polemica a questo punto svanisce all’istante…»

In Italia si assiste ad un continuo sovrapporsi di pareri scientifici contrastanti tra di loro. Una sorta di gara tra virologi nel smentirsi a vicenda e ognuno ritiene di avere ragione più di un altro collega.

«Mi viene da rispondere citando il filosofo francese Michel Onfray il quale, in una intervista a Repubblica ha affermato: “Non si può passare impunemente, e così duramente, da una società pervasa dal rumore onnipresente, dall’iperattività incessante, dall’eccitazione permanente, dell’andare e venire continui, dall’esibizionismo perpetuo al silenzio, alla calma, alla solitudine, all’isolamento, all’invisibilità senza che tutto ciò non implichi danni incalcolabili…”. Mi colpisce, e amo ripetere, il termine “esibizionismo perpetuo” che descrive bene un fenomeno presente nei media e nei social network, ovvero il proliferare di opinioni autoreferenziali e il sottrarsi all’autocritica. Se questo accade nella ricerca, che ha bisogno di tempo, piccoli passi e concentrazione, i danni posso essere irreparabili.

Le parole chiave da tenere presenti in questo momento sono: pragmatismo, pazienza, qualità della raccolta dei dati attraverso una coordinazione fra i centri e, ancora forse utopistico in Europa, fra i diversi paesi. L’umiltà è necessaria prima di trarre delle conclusioni affrettate che avranno poi ricadute possibili sulla salute pubblica, l’ordine sociale e anche l’economia di un paese. I dati devono essere comparati e valutati da revisori esterni e imparziali, sempre e comunque. Dopo lo tsunami di pubblicazioni e proclami (“pre print”) a cui abbiamo assistito in questi mesi, servono ora le cosiddette “metanalisi”, per arrivare a capire dove si trova la verità in questa miriade di dati. La sistematicità nella ricerca sul comportamento del coronavirus e le sue non ancora del tutto decifrabili conseguenze, pur pressati dalla richiesta di risposte veloci, è l’unica strada che ci porterà a vincere questa sfida».

(di Roberto Rinaldi; fonte: Articolo21; immagine di copertina: Pechristener, Wikipedia)

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La satira umoristica turca è di casa allo Studio d’arte Andromeda di Trento

La satira umoristica ha una patria d’eccellenza: la Turchia ma è di casa anche in Italia a Trento. Lo Studio d’arte Andromeda è un’associazione culturale opera in questa città da oltre quarant’anni e svolge un’intensa attività grafica in campo internazionale. In ambiti come la satira, illustrazione, pittura, grafica e fumetto. Organizza ogni anno una rassegna internazionale di satira e umorismo e a Trento sono arrivati artisti di fama internazionale: Zavrel, Reggiani, Thole, Negrin, Anna Castagnoli, Oscar Sabini, Ana Ventura, Svetlan Junacovic, Javier Zabala, la Scuola di disegno anatomico del Rizzoli di Bologna, tra i tanti che figurano nell’elenco. Tra le tante collaborazioni l’Andromeda mantiene da molto tempo anche un legame particolare con i disegnatori e illustratori della Turchia. Un gemellaggio che vale la pena approfondire vista la situazione in cui riversa questa nazione. Assunta Toti Buratti è una delle fondatrici dell’Associazione di cui è anche vicepresidente, dopo aver svolto la carriera di docente di materia in disegno dal vero presso l’Istituto statale d’arte Alessandro Vittoria di Trento. Sulla satira umoristica in Turchia e sul lavoro svolto negli anni per invitare i disegnatori di tutto il mondo a Trento, ci ha rilasciato un’intervista mentre l’attività artistica dell’Andromeda è sospesa a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

Assunta Toti Buratti, ‘Chi ha paura del lapis cattivo’

«La prima considerazione necessaria per parlare dell’importanza della cultura artistica nel settore della satira umoristica è quella di smettere di pensare come i turchi siano solo un popolo dedito al fumo: un banale luogo comune! In Turchia c’è una storia importante sulla satira e l’umorismo paragonabile a quello della Francia, mentre noi in Italia siamo rimasti indietro causato dalle conseguenze di vent’anni di censura durante il Fascismo che impediva ogni libera espressione. Quando iniziai a frequentare negli anni ‘70, il Salone Internazionale dell’Umorismo di Bordighera, (è stato uno dei principali festival dedicati al disegno umoristico organizzati in Europa, fondato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale da Cesare Perfetto, ndr) partecipavano disegnatori come Raymond Penet (l’ideatore dei celebri“fidanzatini”) e Nehar Tüblek, uno dei disegnatori turchi più conosciuti , vincitore di numerosi premi anche in Italia, come quello di Bordighera e alla Biennale internazionale dell’umorismo d’arte di Tolentino. Con il tempo ho capito bene la realtà della Turchia in cui si poteva svolgere un’intensa attività satirica a cui veniva dato ampio spazio sui giornali – spiega la disegnatrice – , cosa che da noi in Italia non ci sognavamo nemmeno.

Nehar Tüblek

Negli anni a seguire mi hanno invitata a far parte della giuria che esaminava i partecipanti alla rassegna internazionale di Istanbul. Sono una delle quattro artiste negli anni ‘80 che disegnavano satira umoristica in Italia. Ad Istanbul partecipavano illustratori da tutto il mondo e venivamo ospitati in un palazzo storico dove un tempo era l’harem delle vedove del sultano, poi trasformato in un centro di calcografia per i stampatori. Qui ci siamo riuniti per una settimana con il compito di selezionare le opere umoristiche e satiriche. In Turchia in passato i disegnatori venivano trattati con riverenza e considerati dei personaggi molto amati e rispettati, alla pari degli scrittori». Visionare le tante illustrazioni e vignette realizzate dagli artisti ed esposte all’Andromeda di Trento fa capire come questa forma artistica sia fondamentale per l’esercizio e la libertà di pensiero in democrazia.

Nehar Tüblek

«Sono tornata una seconda volta in Turchia – prosegue Assunta Toti Buratti – per la rassegna internazionale di Istanbul il cui presidente della giuria era Metin Peker. Un giorno siamo stati invitati a visitare una redazione di un giornale ed io avevo in mano un piccolo libro d’illustrazione dal titolo “Sorridere piano”; lo vede un giornalista e avvicinandosi mi disse: “Sorridere piano, disegnare forte”». Scrive Fazila Mat in un interessante e approfondito articolo pubblicato sul sito www.balcanicaucaso.org dal titolo “Fare satira politica e religiosa in Turchia. La forza della tradizione umoristica (…)”: «le riviste d’umorismo sono un prodotto e anche un riflesso delle molteplici realtà contraddittorie che coesistono in Turchia e che, secondo alcuni umoristi, rappresentano la fonte dalla quale attingere il sorriso. La stampa satirico-umoristica a Costantinopoli risale alla seconda metà del XIX secolo. Le riviste del periodo, ispirate nei disegni ai coevi francesi e inglesi, oltre a segnare il passaggio da una cultura umoristica orale a quella su carta stampata, diedero anche voce alle preoccupazioni politiche, morali e religiose della società multietnica ottomana».

Tornando ai giorni nostri la disegnatrice dell’Andromeda ci racconta anche dell’incontro con uno degli artisti turchi più celebri: Metin Peker: «Ricordo quando durante una riunione di disegnatori Peker mi abbracciò con forza. Aveva fatto tre anni di carcere a causa di un colpo di Stato avvenuto in precedenza e solo dopo la caduta del regime era stato liberato. Pubblicava sulla rivista Karikatür che tradotto in italiano significa caricatura e viene utilizzata per disegnare i visi delle persone, mentre nel resto del mondo questa espressione artistica è carica di significati. Ora prevale il cartoon inglese. Su un numero di Karikatür è stata pubblicata in copertina una mia vignetta. Un’altra rivista online importante è Fenamizah (pubblicata fino al 2017, ndr). Tra di noi disegnatori ci sentivamo spesso e ho ricevuto spesso l’invito da parte dei colleghi turchi.

Il clima satirico in Turchia è alimentato da diverse manifestazioni come quella della Biennale di Ankara; in una di queste edizioni hanno partecipato anche i giovani del nostro laboratorio dell’Andromeda invitati in rappresentanza dell’Italia. A Smirne, nel centro storico, c’è il Museo dell’umorismo e della satira dei popoli del Mediterraneo dove io sono stata invitata in rappresentanza dell’Italia. Qui ho conosciuto il direttore del Museo, Eray Özbek, invitato poi a Trento dove è stato premiato come migliore disegnatore nella nostra rassegna, uno dei giurati alla rassegna internazionale di Bodrum sostenuta da un mecenate come Aidin Dogan (nel 2018 il Sole 24 Ore pubblicò un articolo in cui veniva riportata la notizia della vendita di alcuni dei suoi principali media d’opposizione in Turchia. Una situazione attuale in cui molti giornalisti sono stati arrestati e destano forte apprensione per le loro condizioni, ndr)».

La Turchia è stata anche la patria di Mustafa Kemal Atatürk, considerato come un eroe e padre nobile, eletto presidente della Repubblica e fautore della laicizzazione dello stato. Tra le sue prime iniziative intraprese la chiusura delle scuole religiose in favore di un sistema di istruzione pubblica centralizzato e l’abolizione dei tribunali religiosi. Un’altra personalità prestigiosa per la cultura turca è Nâzım Hikmet: poeta, drammaturgo e scrittore turco, è considerato uno dei più importanti poeti turchi dell’epoca moderna. Subì diverse condanne e fu incarcerato per 14 anni. I suoi libri sono stati tradotti in tutto il mondo mai nella sua lingua originale. Muore a Mosca nel 1963.

@Copyright Bertani editore 1988 Nuova editrice Verona – Studio d’Arte Andromeda

Assunta Toti Buratti cita anche la rassegna umoristica di Istanbul più quotata al mondo: «Vengono assegnati ventimila euro di premio da destinare al vincitore del concorso internazionale Nasreddin Hodja Cartoon Contest, aperto ai caricaturisti di tutto il mondo, ed il tema scelto ad ogni edizione biennale è in linea con le principali questioni del mondo più uno fisso, quello della situazione delle donne. Un mecenate finanzia le scuole per bambine orfane e un laboratorio fatto da non disegnatori. In Turchia c’è lo sforzo per emancipare le donne. La satira serve anche a scopi educativi».

L’Andromeda nel 1988 ha realizzato una rassegna di grafica umoristica dal titolo “Chi ha paura del lapis cattivo” dove sono state esposte opere di Marta Anderle, Giovanna Avancini, Giorgio Bertani, Cetrioli Salsa e Fantasia, Giuseppe Marchi, Carlo Martinelli, Rudi Patauner, Luigi Penasa, Giorgio Masera, Umberto Rigotti, Assunta Toti Buratti,Paolo Vitti, e con l’adesione di Aldo Bortolotti, Vauro Senesi, Vauro Senesi, Leonardo Cemak.

Rudi Patauner, ‘Chi ha paura del lapis cattivo’

Lassociazione è composta da Giulia Pedrotti che ricopre la carica di presidente, Assunta Toti Buratti è la vicepresidente, i consiglieri sono Lorenza Sebastiani, Romano Oss, Umberto Rigotti, Luigi Penasa, Alessandro Alfonsi, Nadezhda Simeonova

(Fonte: Articolo21; autore: Roberto Rinaldi; in apertura foto di Umberto Rigotti ‘Chi ha paura del lapis cattivo’ – Studio d’Arte Andromeda Trento 1988)

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Patrick Rina (Orf): ‘Il giornalismo educatore civico’

Patrick Rina è un giornalista della radiotelevisione pubblica austriaca ORF (Österreichischer Rundfunk) e lavora nella redazione di Bolzano. Nato a Merano nel 1987 è figlio di un uomo originario della Sicilia (il padre è di Castelvetrano, in provincia di Trapani) e di una donna di lingua tedesca altoatesina/sudtirolese (la madre è nata a Glorenza – Val Venosta, in provincia di Bolzano). Giornalista professionista ha superato l’esame a Roma nel 2013 e conosce bene la realtà dell’Alto Adige, sia come nativo ma anche per la sua professione, che lo porta ad osservare con un occhio di riguardo (lavorando per un’emittente estera ma sul suolo italiano), le dinamiche politiche, sociali e culturali di una terra ricca ma anche contraddittoria per molti aspetti. Bilingue perfetto, è un collega esperto e sensibile nel comunicare attraverso la televisione, grazie alla sua identità linguistica duplice.

Patrick Rina è iscritto al Sindacato giornalisti del Trentino Alto Adige e la conversazione si svolge rigorosamente al telefono per rispettare le norme dettate dall’emergenza sanitaria Covid – 19.

«Per noi giornalisti della televisione austriaca è importante appartenere anche al circuito sindacale della FNSI, una novità e una spinta propulsiva per lavorare bene. La nostra redazione non aveva un fiduciario, né tanto meno un comitato di redazione. Come televisione estera con giornalisti italiani ci si sente come delle figure mediatiche ibride. Io ho studiato però nelle scuole di lingua tedesca a Merano e facendo questo lavoro mi è stata data la possibilità di analizzare la situazione particolare dell’Alto Adige con una prospettiva da “forestiero”. Ritengo che la stampa italiana ma anche europea viva un momento particolarmente difficile, alla luce di come vengono date le notizie da alcuni media italiani ma anche di quelli tedeschi, in particolare i tabloid. C’è bisogno di maggiore pacatezza nel dare informazioni. Penso in particolare al tema del Covid-19 o coronavirus. È necessario possedere una maggiore ratio nel senso illuministico del termine perché osservo come molti giornali usino dei toni quasi propagandistici, urlati, come fosse una chiamata alle armi e questo mi preoccupa perché non è l’obiettivo del vero giornalismo e della stampa. La propaganda non può essere presente nel dare informazioni così delicate come nel caso della pandemia. Sembra una caccia alle streghe nei confronti dei politici e dei cosiddetti “untori”. Si cercano dei colpevoli. Consiglio di rileggere Réné Girard (antropologo, critico letterario e filosofo francese: la sua l’idea è che ogni cultura umana è basata sul sacrificio come via d’uscita dalla violenza mimetica, ndr), l’ideologo del capro espiatorio, ovvero l’invenzione del colpevole.

Al Museo diocesano di Trento (ora chiuso) nelle ultime settimane era proprio in corso la mostra dal titolo “L’invenzione del colpevole. Il ‘caso’ di Simonino da Trento dalla propaganda alla storia” (a cura di Domenica Primerano con Domizio Cattoi, Lorenza Liandru, Valentina Perini e la collaborazione di Emanuele Curzel e Aldo Galli, ndr). Quando si manifestano sentimenti legati alla paura e all’odio questi si diffondono ovunque nella società e si cerca di trovare un solo colpevole (Girard definisce questo fenomeno come “capro espiatorio” che in antichità poteva essere o un animale o un essere umano e destinato ad essere colpevole per far si che una comunità si coalizzi senza dividersi, ndr)».

«L’ideologia della paura – prosegue Patrick Rinasi è manifestata anche attraverso la stampa germanica quando ha iniziato a criticare la sanità italiana accusandola di non essere preparata ad affrontare il coronavirus. Non dobbiamo costruire delle notizie frutto di stereotipi mentre osservo, al contrario, come molti articoli pubblicati – in Italia e nel mondo di lingua tedesca – abbiano un tono nazionalistico. Viene in mente la cosiddetta influenza spagnola, la quale tra il 1918 e il 1919 causò milioni di morti nel Mondo, una pandemia terribile. Non aveva un’origine spagnola ma fu solo la stampa spagnola a scriverne perché non era soggetta a censura, e da qui l’appellativo “spagnola”. Fu dato il nome di “spagnola” per via che solo in Spagna (nazione non coinvolta nella prima guerra mondiale) la stampa non era soggetta a censura (la diffusione del virus fu censurato dagli altri stati parlando di un’epidemia limitata alla Spagna, le cui cause  non trovano una spiegazione scientifica univoca, ndr). Anche noi operatori dell’informazione così attenti ora alla crisi globale siamo coinvolti in questo meccanismo ed è proprio ora che dobbiamo dimostrare come fare i giornalisti sia un’arte e una professione qualificata. Forse questa pandemia del coronavirus potrà far rinascere il giornalismo seriamente perché la stampa deve comunicare le informazioni accertate, dimostrabili scientificamente. Contano la verità dei fatti e la continenza verbale perché è arrivata l’ora della serietà! Ai miei amici continuo a fare queste domande: tu credi al video dell’amico mandato tramite i social o credi all’informazione dei professionisti? Credi a qualcuno che non ha controllato prima? Oppure ad un lavoratore del sapere responsabile che fa una verifica prima di pubblicare in prima pagina una notizia?»

Il giornalista ha studiato storia ad Innsbruck e letteratura tedesca a Venezia ma per motivi professionali ha lasciato, dedicandosi anima e corpo alla famiglia e al suo lavoro, del quale esprime un senso etico e deontologico fuori dal comune: «Ancora non lo posso dire se il giornalismo potrà rinascere, raccontando solo la verità dei fatti, la verità scientifica non falsata e semplificata (anche per il Covid-19 molta stampa sta dimostrando di non accertare la veridicità delle fonti e si azzarda in teorie e spiegazioni prive di fondamento, ndr). Io però voglio rivolgere un appello a tutti i colleghi di responsabilizzarsi sempre di più per diventare veri educatori civici! Bisogna narrare ai lettori e ai telespettatori i valori e i vantaggi della nostra democrazia liberale, dicendo di sì alla forza della collettività democratica, sì all’individuo, al cittadino che si sente parte della comunità, della civitas. La stampa deve ricordare sempre l’importanza della democrazia mentre le reti unificate – forse sono necessarie solo in questo momento (per la pandemia del coronavirus, ndr), ma il lievito democratico è rappresentato dal pluralismo come l’agorà, preludio della democrazia.

I giornalisti devono essere i “cani da guardia” della democrazia e vigilare su certi atteggiamenti, visto che siamo in una crisi. C’è la presenza delle forze della polizia, in molti paesi i servizi segreti hanno accesso a dati sensibili, come quelli dei telefoni cellulari. C’è anche l’utilizzo dei droni. Il monitoraggio degli spostamenti se limitato al periodo dell’emergenza sanitaria va bene, ma non deve essere prolungat0. Vorrei che ci fosse una discussione pacata su questi argomenti. Purtroppo la stampa si dimentica presto del passato ma una democrazia liberale, plurale è rappresentata dall’impegno di tutto il Parlamento italiano. Bisogna sempre dire no convintamente a tutte le derive e bramosie autoritarie come è accaduto in Ungheria con Orbàn che ha ottenuto i pieni poteri dal Parlamento della sua nazione. Non si può governare senza il parlamento e i giornalisti dovrebbero servirsi sempre della ratio e della propria intelligenza a proposito di informazione e disinformazione. Sarebbe utile leggere cosa ha scritto Kant a proposito di persuasione e convinzione nel divulgare un pensiero».

“Quando essa è valida per ognuno che soltanto possegga la ragione, allora il fondamento di essa è oggettivamente sufficiente, e allora la credenza si dice convinzione. Se essa ha il suo fondamento nella natura particolare del soggetto, è detta persuasione. La persuasione è una semplice apparenza, poiché il fondamento del giudizio che è unicamente nel soggetto, vien considerato come oggettivo. Una persuasione io posso tenermela per me, se pure io mi ci trovo bene, ma essa non può né deve, volersi rendere valida al di fuori di me” (brano tratto da Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

Rina non ha dubbi che il praticare il giornalismo con intelligenza sia fondamentale anche oggi per affrontare una situazione così sconvolgente per tutto il pianeta, colpito dalla pandemia: «Ci aiuterà anche in questa crisi nella descrizione della nostra società e penso a quella italiana come a  quella austriaca e germanica. Il nostro tempo assomiglia ai tipici sintomi da fine secolo con una società che sembra ballare su un vulcano e oscillare tra carnevale e quaresima. Si muove così tra positivismo idolatrato e una superstizione del pensiero magico. Mancano solo i flagellanti. Questa “coincidentia oppositorum” mi ricorda le parole del filosofo tedesco Theobald Ziegler che descrisse l’alba del Novecento come un’unione degli opposti. Ci sono tante similitudini con gli incipienti anni Venti del Duemila. Il compito dei giornalisti è ora più che mai quello di essere chiari e di usare un linguaggio possibilmente senza malintesi, fraintendimenti e sensazionalismi. Francis Bacon, filosofo e politico inglese vissuto tra il Cinquento e Seicento, si dedicò agli idòla fori ossia “della piazza”: molte parole non hanno un significato e non si riferiscono a nulla di reale e derivano da false teorie, da un linguaggio fallace ricco di malintesi ed  informazioni obnubilate. Sono sostanzialmente le fake news di oggi. Vedo nella nostra categoria il rischio di cadere in questo errore. Bisogna fare molta attenzione a non allontanarsi da una professionalità deontologicamente corretta. Ma ora anche il cittadino deve assumersi le sue responsabilità. Il cittadino solidale ha a cuore la comunità e non è un semplice esecutore di provvedimenti altrui. Io auspico che ci possano essere più cittadini figli dell’illuminismo. Ora ci sono dei doveri nei confronti della comunità, come quello di stare a casa. Consiglio di leggere il romanzo “La peste” di Albert Camus. Il libro parla sì di una tragedia, ma il messaggio principale ai posteri è quello della forza della solidarietà e della forza dell’avvedutezza».

(Roberto Rinaldi; fonte: Articolo 21)

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Le ‘Parole non sono pietre’e la Carta d’Assisi a Civiltà Cattolica

Nella sala convegni della rivista Civiltà Cattolica di Roma si è svolto venerdì 28 febbraio scorso un dibattito -seminario dal titolo “Parole non pietre” organizzato da Articolo 21 e dalla Federazione nazionale della stampa, alla presenza dei rappresentanti di tutte le fedi religiose riuniti insieme per la prima volta. Un evento senza precedenti per il valore simbolico, ma soprattutto per una comunanza d’intenti, capace di andare oltre a semplici promesse all’insegna di un dialogo antireligioso, sociale, politico, civile alla base di ogni democrazia. Un dialogo basato sulla convivenza pacifica e rispettosa delle idee e dei pensieri altrui. “Parole non pietre” si basa sulla Carta d’Assisi: un documento sottoscritto in precedenza il 3 maggio 2019 nella sede della Federazione nazionale della stampa dai tre esponenti più autorevoli delle religioni monoteiste. Un appello urgente soprattutto ai giornalisti a cui viene chiesto d pubblicare le notizie con un linguaggio consono e rispettoso della dignità altrui. Un’informazione corretta e scevra da parole usate come pietre, epiteti irripetibili, insulti e denigrazioni verso i più deboli, gli emarginati, gli stranieri. Un linciaggio mediatico mediante la violenza verbale capace poi di tramutarsi anche in atti fisici.

Nella Carta di Assisi è citato al punto nove uno dei principi cardini titolato “Connettiamo le persone”: «La società non è un groviglio di fili, ma una rete fatta di persone: una comunità in cui riconoscersi come fratelli e sorelle. Il pluralismo politico, culturale, religioso è un valore fondamentale. Connettiamo le persone». Contro ogni forma d’odio e razzismo la parola è fondamentale se utilizzata affinché si possano costruire dei “ponti e non innalzare dei muri” come spesso ricorda il presidente della FNSI Giuseppe Giulietti, l’artefice di queste tre giornate culminate domenica 10 marzo con la deposizione della “Panchina della Memoria” (realizzata dall’associazione Leali delle Notizie di Ronchi dei Legionari) nel Ghetto ebreo di Portico d’Ottavia di Roma, e dedicata a giornalisti e tipografi ebrei romani vittime della deportazione. Erano presenti Ruben Della Rocca, vice presidente della Comunità Ebraica di Roma; Mario Venezia, presidente della Fondazione Museo della Shoah; David Sassoli presidente del Parlamento europeo e della sindaca di Roma Virginia Raggi.

Nella sede  di Civiltà Cattolica si sono susseguiti gli interventi di Raffaele Lorusso segretario generale della Federazione nazionale della stampa, Guido D’Ubaldo, segretario del Cnog, Roberto Natale, coordinatore Comitato scientifico di Articolo21; padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica; Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero delle Comunicazioni della Santa Sede; Muhammad Abd al-Salam, segretario dell’Alto Comitato per l’attuazione documento sulla fratellanza; Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma; Alessandra Trotta, moderatrice della Chiesa Valdese; Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia; il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’Editoria, Andrea Martella. Le loro firme sono state apposte sul disegno realizzato da Mauro Biani che rappresenta un ponte formato da una penna su cui si incontrano dei giovani provenienti da entrambe le direzioni.

Ad aprire il convegno Elisa Marincola portavoce di Articolo 21 che ha spiegato come l’iniziativa “Parole non pietre”  dove  confronto serviva per fornire una « sana informazione e una condivisione per noi a noi stessi», rifacendosi a quanto scritto nella Carta d’Assisi, e annunciando il saluto video registrato di Liliana Segre presidente della Commissione parlamentare contro il razzisimo, l’antisemitismo e la discriminazione: «le parole contro l’odio non sono pietre, sono messaggi che non hanno credo politico, religioso ma sono universali che uniscono e non dividono. Portano conforto. Per chi ha sofferto per le pietre il fatto che si parli di pace è importante. Sono felice che tante persone di fedi diverse si riuniscano per celebrare la pace sotto il cielo di Assisi e abbiano firmato la Carta d’Assisi».

Padre Antonio Spadaro, direttore della rivista Civiltà Cattolica (fondata nel 1850, la più antica d’Italia) ha ribadito come sia fondamentale operare con professionalità per «avere a cuore una delle architravi della nostra democrazia. La declinazione in tutte le forme di comunicazione ci fa chiedere quale società ho in mente? Quale voglio costruire? Lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella ci rivolge un monito quando dice di “sentirsi e riconoscerci in una comunità di vita e di comune destino”. Questo significa condividere valori e prospettive, diritti e doveri, parole da scolpire. I media svolgono un ruolo fondamentale nella comunicazione che costituisce un ambiente reale e non virtuale e ogni informazione crea delle relazioni e ogni comunicazione diventa informazione. In questi tempi una malattia epidemica ci mette sotto stress attaccando anche la nostra fisiologia della nostra anima ma dobbiamo combattere anche un’altra influenza ed eliminare l’odio contro il diverso. Viviamo in bolle filtrate dove ci mettiamo in contatto solo con chi la pensa come noi ».

Padre Spadaro ha voluto ricordare anche Antonio Megalizzi come un esempio di chi voleva contrastare ogni forma di linguaggio responsabile di alimentare intolleranza e odio verso gli altri. Un pensiero ripreso anche da Raffaele Lorusso segretario generale della FNSI: «Parole e non pietre richiama alla responsabilità di azioni condivise e il Congresso di Levico ha rappresentato lo spartiacque tra chi ritiene che uno vale uno e che si riconosce nella Costituzione antifascista. In un’ottica di post verità c’è chi si sforza di raccontare i fatti e c’è chi fa scatenare reazioni scomposte e irrazionali e attraverso l’uso di parole responsabili si cerca di far allontanare chi ne fa un utilizzo demagogico. Il confronto può diventare acceso ma non deve trasformarsi in una permanente chiamata alle armi, ad una narrazione che tende ad escludere e non ad includere. Dobbiamo tutti collaborare a costruire ponti e non muri e alimentare il terreno fertile si cui operare in questo senso. La Rete ha ingigantito il fenomeno su cui si basa il concetto distorto dell’uso delle parole. Viviamo in una democrazia liberale dove si sta cercando di ostacolare – ha proseguito Lorusso – la mediazione e i confronti alla base stessa della democrazia. L’accesso alla Rete rende possibile il fenomeno di proliferazione dell’utente con la creazione di gruppi chiusi dove si propagano fenomeni di paura. Voglio citare Stefano Rodotà (il primo Garante per la protezione dei dati in Italia, ndr) il quale facendo riferimento all’habeas corpus (“che tu abbia il tuo corpo”, ndr) parlò della necessità di arrivare alla definizione di “habeas data” estendendo alla Rete il diritto come sancito dall’habeas corpus di curare un fenomeno che ha la responsabilità di aver creato disagio sociale, diseguaglianze e violazione dei pari diritti di tutti e delle eguaglianze».

Se l’habeas corpus è stato pensato per tutelare l’essere umano nella sua integrità fisica (nel rispetto della sua dignità di corpo fisico) a garanzia dei propri diritti, oggi è fondamentale poter proteggere la libertà di una persona riconoscendo l’esistenza di un corpo digitale. «Il disagio sociale che si è venuto a creare è il risultato di politiche sempre meno attente fino ad aver creato false notizie e questo ha agevolato l’azione dei professionisti della demagogia. È necessario ridurre le diseguaglianze e gli ultimi del mondo del lavoro. Anche le parole tornino ad avere il loro significato» – ha concluso Raffaele Lorusso.

In un’epoca dominata dalle tecnologie digitali in cui la vita di ciascuno è condizionata in modo sempre più invasivo parlare di corpo digitale assume un significato preciso e non si può prescindere da quelle che sono le modificazioni e invasioni della propria libertà e dignità personale. Connessioni pervasive, divulgazione di dati sensibili, fino ad arrivare ad un uso compulsivo e distorto e responsabile di alimentare anche una disinformazione generalizzata. Tutto viene rilevato da queste tecnologie e reso pubblico, ogni gesto, azione fisica ed emotiva spesso manipolata. Roberto Natale del comitato scientifico di Articolo 21 ha poi spiegato l’importanza della Carta d’Assisi: «non è solo una carta dei giornalisti ma essa confluisce sulla strada dei diritti creata a fine anni Ottanta dal gruppo di Fiesole, ma è anche la carta dei doveri . Va contrastata la disintermediazione. Dobbiamo tutti noi giornalisti dimostrare la nostra responsabilità per impedire la marea montante dell’odio. L’assemblea parlamentare europea ha richiamato l’Italia per il linguaggio d’odio che imperversa nella nostra politica e nell’informazione. La Carta d’Assisi non nasce dal buonismo, non chiede di guardare la realtà con gli occhiali rosa ma di accertare e raccontare solo la verità. Lo ha ribadito anche il presidente Mattarella nel premiare semplici cittadini che non è un problema di essere buonisti; il tema del buonismo è emerso come riflesso condizionato nei media vedi certi titoli di giornali – ha spiegato Roberto Natale – come “prove tecniche di strage”; “accogliamo tutti anche i virus”; “ ora ci diamo tutti una calmata!”. La società non si regge sulla legge della lacerazione sociale, dobbiamo imparare a dare l’informazione con i numeri giusti altrimenti ci si avvelena tra quella che è la dimensione reale e quella della percezione ricevuta dei cittadini. Noi giornalisti abbiamo la responsabilità di combattere l’emotività».

Il direttore dell’Osservatore Romano Andrea Monda ha voluto ricordare nella circostanza dell’evento anche la catastrofe umanitaria che si è verificata in Siria con un milione di sfollati dove molti media omettono di darne notizia. Anche questo è un modo di fare disinformazione alla pari di chi scrive false notizie. «La Carta d’Assisi ci dice come una società incapace di reggere non cresce se si alimenta solo dentro le camere dell’ego e se ciascuno si connette solo con se stesso. Dobbiamo tenere vivo il dialogo». Il governo era rappresentato dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega all’Editoria, Andrea Martella il quale ha portato un contributo efficace alla discussione (approvato dall’Ordine dei giornalisti che ha concesso i crediti formativi -deontologici): «Quando le parole vengono usate in modo strumentale contro l’interlocutore visto come un nemico, diventano un mezzo per colpire, per indurre paura e attaccare e mortificare l’altro. Per impedire il permesso di far entrare gli individui e gli altri popoli e alimentare il tempo dell’odio e dell’intolleranza che si diffonde, penso all’omofobia, al bullismo, al sessismo e al razzismo. l’odio è uno solo (riferendosi alla strage in Germania da parte di un uomo verso i turchi, alla strage in Nigeria, Burkina Faso, ndr) e il movente che sia razziale e di genere è la stessa cosa. L’odio è una pulsione negativa e compagno di viaggio dell’umanità come tutte le altre pulsioni. Emanuele Macaluso (politico e giornalista, ndr) aveva spiegato come “la grammatica ha liberato l’insulto” e ora si può odiare apertamente grazie ad una normalizzazione dialettica (negativa, ndr) e alla base dell’odio c’è la violenza verbale. L’incitamento all’odio e le notizie false (e i media ne sono spesso responsabili, ndr) progrediscono in parallelo – ha spiegato Martella – anche se non bisogna demonizzare internet e i social, questi hanno fatto crescere un lato oscuro, dove si è creato il clima dell’odio. Va sostenuta la complessa partita normativa con la creazione di regole pubbliche e l’autoregolamentazione in nome di una battaglia culturale. I nativi digitali che anno conosciuto il principio dell’informazione reale (la generazione di chi è cresciuto insieme alla diffusione delle nuove tecnologie informatiche, ndr). Esiste uno scarto tra percezione e realtà e alfabetizzazione funzionale, causa anche la scarsa lettura».

Il sottosegretario Martella ha ricordato anche l’impegno per la commissione per l’equo compenso rivolta alla professione giornalistica, la ricostituzione dell’osservatorio contro le intimidazioni ai giornalisti e in conclusione ribadendo la necessità di credere nel «principio del bene sempre presente in ogni credo e anche quello della laicità». Paolo Ruffini prefetto del Dicastero delle Comunicazioni della Santa Sede: «i titoli accattivanti dei giornali diventano titoli cattivi e anche le storie peggiori possono avere la possibilità di riscatto e di trasformazione». Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica di Roma: «stiamo vivendo in una fase dove assistiamo ad una costruzione di un’ideologia basata sulla divisione ed è preoccupante perché è già accaduto. Un finalismo asservito alla propaganda. Ringrazio Giuseppe Giulietti per la sensibilità dimostrata e per l’ascolto condiviso nel cercare di fermare i linguaggi d’odio, il pericolo di un’implosione è forte e grave e non è solo limitato ai noi ebrei e altre minoranze, ma a tutta la società».

La chiusura del dibattito è stata affidata al presidente della Federazione nazionale della stampa: «i processi democratici sono fatti dalle comunità e non dai leader solitari. Ci sono trasmissioni televisive con alti indici di ascolto ma dal basso indice di dignità. Per farlo devi essere radicale sull’analisi ma la radicalità è dare voce all’urlo, all’insulto. I politici vengono chiamati nelle trasmissioni televisive e questo diventa un problema democratico. (Il sociologo Zygmunt Bauman e il filosofo Loenidas Donskis, sono gli autori di “Cecità morale”; quest’ultimo scrive: “Se un politico non va in tv, non esiste – ma questa ormai è storia vecchia. La novità è che, se non sei sui social network, neanche tu esisti”. Cit. da “Cercami su “Instagram. Tra Big Data, solitudine e iperconnessione” di Serena Valorzi e Mauro Berti (Reverdito edizioni). Noi siamo stati accolti qui a Civiltà Cattolica da Padre Spadaro mentre in altri luoghi ci escludono – ha ricordato Giulietti e a lui sono state rivolte spesso delle accuse attaccandolo per le sue prese di posizione contro il sovranismo. Ci sono dei giornalisti che devono andare a casa per aver dimostrato di essere squadristi in quello che scrivono. Noi, invece, firmiamo di nuovo la Carta d’ Assisi per dire no alla penna come strumento di guerra surrettizio, ma uno strumento di conoscenza. Per ricordare i tanti giornalisti n carcere ora dall’altra parte del Mediterraneo. Per la liberazione dalle querele bavaglio. Per dire no ad una cultura del “me ne frego” responsabile di aver ammorbato il nostro paese. Il nostro impegno deve essere condiviso a tutti senza essere mai una corporazione e dobbiamo disarmare chi usa le parole come pietre». Come quelle ascoltate in questi giorni commentando l’emergenza del Covid 19 (coronavirus) come ha fatto, ad esempio, Vittorio Sgarbi. 

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L’inaugurazione della Fondazione Megalizzi a Trento il 14 febbraio

La Fondazione Antonio Megalizzi è stata costituita e fortemente voluta dalla Federazione nazionale della stampa a Trento. Un impegno nato dalla volontà di dare un seguito all’impegno di Antonio nel credere ad un’Europa unita e solidale su basi concrete nel promuovere una cultura della formazione, rivolta ai giovani che si vogliono avvicinare al giornalismo, e alla capacità di esprimere idee e concetti nell’ottica di una libertà di pensiero. Venerdì 14 febbraio la cerimonia ufficiale di presentazione nella Sala di rappresentanza Depero all’interno del Palazzo della Provincia di Trento. La decisione era stata presa esattamente un anno fa durante la ventottesima edizione del Congresso della FNSI a Levico Terme (Trento) che si era svolto  nel mese di febbraio del 2019 . Il presidente FNSI Giuseppe Giulietti fin dal primo istante ha creduto nella sua creazione e grazie al suo sostegno dimostrato nel trovare alleanze strategiche tra tutti gli enti fondatori: FNSI, la Provincia autonoma di Trento e il suo presidente Maurizio Fugatti, il Comune di Trento, l’Università, l’Usigrai (il Sindacato dei giornalisti Rai), Articolo 21, RadUni, il Sindacato giornalisti del Trentino Alto Adige – Südtirol.

Giuseppe Giulietti aveva così dichiarato a Trento dopo le esequie solenni in Duomo: «Sono qui per rendere l’omaggio dei giornalisti italiani della FNSI e dell’ODG ad Antonio Megalizzi, un giovane che aveva nel cuore l’Europa unita, la solidarietà e la libertà di informazione. Lo ricorderemo dopo avere ascoltato i familiari, i suoi colleghi e i suoi amici, trovando il modo migliore per sostenere i suoi progetti professionali, di studio e di impegno etico e civile. Ci appare davvero essenziale che la sua testimonianza non venga dispersa e sia portata avanti da altri giovani che siano in grado di ripercorrere le sue orme». Egli ha anche sottolineato il coraggio civile della Famiglia Megalizzi che ha saputo trasformare il dolore in impegno di solidarietà, di legalità e di libertà.  Intervistato  Giuseppe Giulietti ha spiegato come sia importante il «compito di non commemorare ma di far vivere le idee e i progetti di Antonio dotati di straordinaria attualità per come operava nel contrastare le fake news che imperversano nelle produzioni giornalistiche. Le straordinarie testimonianze che ci ha lasciato sono riflessioni che dobbiamo fare nostre e diffondere consegnare al presidente del Parlamento europeo David Sassoli e alla senatrice a vita Liliana Segre, presidente della Commissione contro i linguaggi dell’odio. Nelle pagine ereditate da Antonio troviamo preziose indicazioni per riportare il giornalismo alla sua funzione essenziale: connettere parole e cose riportando al centro della nostra attenzione non la percezione della realtà, ma i numeri e la sostanza che definiscono la realtà».

Nel corso dei mesi precedenti i vertici della Federazione, Articolo 21, Usigrai, e Sindacato giornalisti, si sono incontrati spesso a Trento con la famiglia Megalizzi, intessendo un dialogo mediato dal segretario del Sindacato regionale dei giornalisti Rocco Cerone attraverso la consultazione con i rappresentanti istituzionali e politici della Provincia e Comune di Trento, e dell’Università. Nel corso di una visita alla Famiglia Megalizzi avvenuta pochi giorni fa il presidente Giulietti ha invitato i genitori di Antonio a Roma il 28, 29 febbraio e 1 marzo dove si svolgerà una manifestazione intitolata “Le parole non sono pietre” nella sede di Civiltà Cattolica e in altri luoghi in cui il dialogo è la base di ogni forma di convivenza civile, religiosa e democratica, promossa dall’Associazione Articolo21 alla quale parteciperanno anche le famiglie Rochelli, Cucchi, Siani e Impastato. Il prologo della presentazione della Fondazione avrà luogo giovedì 13 febbraio pomeriggio alle 15.30 con una cerimonia dove verrà svelata una targa intitolata alla memoria di Antonio Megalizzi presso la Facoltà di Lettere, dove un anno fa venne messo a dimora un ulivo in segno di pace. Nella stessa giornata alle ore 17, nella sala di rappresentanza del Comune di Palazzo Geremia, verrà presentato libro “Il sogno di Antonio” di Paolo Borrometi, (Solferino Editore), alla presenza dell’autore, di Marino Sinibaldi, direttore di Radio Rai 3 e del presidente Giuseppe Giulietti.

(Fonte: Articolo21)